Non profit
Altro che zavorra, il sociale è la prima ricchezza
Il terzo settore gioca un ruolo decisivo
Quando se ne parla, si pensa sempre agli ammortizzatori. Invece è il fattore diretto di sviluppo. Ma per non farselo scippare, il non profit deve fare più sistema Il lavoro, la presenza, l’impegno del terzo settore e del volontariato sono, al Sud, insieme più necessari e più difficili. Più grande è infatti il fabbisogno di servizi, di assistenza, di accompagnamento; più diffuse le situazioni di disagio sociale, più numerosi i territori in cui si è in presenza di vere e proprie patologie del tessuto sociale. La stessa evasione dell’obbligo scolastico, pure fortemente ridotta negli ultimi decenni, è ancora ad un livello altissimo. Al Sud quindi il terzo settore è chiamato in modo più perentorio ad un ruolo di supplenza, in una sorta di dichiarazione di sussidiarietà capovolta, e peraltro condizionata dalle tensioni finanziarie indotte dai cronici ritardi nei pagamenti da parte delle amministrazioni locali.
Le stesse tensioni del mercato del lavoro, da tempo strutturali, interferiscono con l’esperienza del volontariato che pure è in forte crescita. Proprio questa complessità della situazione sociale rende particolarmente significativo il lavoro del terzo settore al Sud, e non di rado si intercettano storie, percorsi, persone che rimandano ad una dimensione di impegno civile al limite dell’eroismo.
Ma la questione che io credo debba essere posta con maggiore determinazione è la relazione tra il lavoro, la presenza ed i programmi del terzo settore e lo sviluppo più complessivo del Sud. Io penso che bisogna con forza porre al centro delle politiche per il Sud le politiche sociali; che bisogna superare uno schema, mai dichiarato, ma implicito nelle scelte e nei comportamenti dei decisori politici, per cui il sociale “segue” lo sviluppo vero, quello degli investimenti infrastrutturali, degli incentivi alle imprese: quello che viene misurato calcolando leggi e stanziamenti. In questa logica quando si parla di “sociale”, si intende la cassa integrazione, il sostegno del reddito, la formazione professionale-parcheggio.
Bisogna invece ripartire dal sociale. Del resto se si guarda alle due grandi questioni che vengono richiamate oggi quando si parla di Sud – ritardo economico/disoccupazione e legalità/sicurezza – l’attualità di questa riflessione appare evidente.
Ha senso limitare l’impegno per la sicurezza alla prevenzione e alla repressione? O non è piuttosto necessario, accanto a questi interventi, lavorare intensamente per l’inclusione sociale e per l’integrazione? Non è forse il caso di concentrarsi sull’evasione dell’obbligo scolastico e immaginare interventi forti per impegnare gli adolescenti ed evitare che vengano assoldati, come vere e proprie reclute, nell’esercito della criminalità organizzata? E guardando allo sviluppo, gli interventi massicci con fondi nazionali ed europei, non perdono in molti casi efficacia perché impattano su un terreno ambiguo, sfilacciato, senza responsabilità e senza coesione, con una insufficiente cultura imprenditoriale? Quante volte ci chiediamo se tutti questi soldi vadano a buon fine?
Io penso che tutti i soggetti, in prima fila le istituzioni e la politica, debbano riconoscere la centralità del sociale come fattore diretto di sviluppo; non una necessaria e lodevole attività marginale incaricata di attenuare i ritardi e correggere i guasti della crescita. Ma un percorso decisivo, ed in alcune aree del Paese, prioritario.
Mi torna alla mente una frase di Giorgio Ceriani Sebregondi tratta da uno splendido saggio (del 1950) sulla teoria delle aree depresse, in cui dice che «essendo confermato che la crisi che si rileva nell’area depressa è crisi generale del sistema sociale costituito, risulta una illusione economicista quella che induce a pensare di risolvere tale crisi rimanendo esclusivamente – o quasi – sul terreno economico e dei provvedimenti di natura economica».
Accanto a questo ripensamento sulle politiche, sulle strategie di intervento, anzi per modificare il quadro dell’offerta politica, occorre che le grandi esperienze del terzo settore facciano più sistema, guardino di più al loro territorio, si pongano il tema prioritario del rafforzamento della coesione sociale; si riconoscano e si facciano riconoscere, come soggetti decisivi entro i percorsi di sviluppo, e non ai loro margini.
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