Emergenza penitenziaria

Altro che “svuota carceri”, quel decreto è quasi vuoto

Approvato ieri dal consiglio dei Ministri, il decreto legge battezzato dal Governo “Carcere sicuro”. Prevede l’assunzione di 1.000 agenti, l’istituzione di un albo di comunità adibite alla detenzione domiciliare, procedure più snelle per concedere l’uscita anticipata dal carcere. Michele Miravalle (Antigone): «Rispetto alle premesse, il risultato è un po’ la montagna che ha partorito un topolino». + Aggiornamento, 20,30: un sucidio a Firenze, mentre a Livorno muore un detenuto che, nei giorni scorsi, aveva tento di togliersi la vita +

di Ilaria Dioguardi

«Il decreto legge che abbiamo approvato oggi è un intervento vasto e strutturale», ha detto il ministro della Giustizia Carlo Nordio in conferenza stampa, dopo l’approvazione del decreto legge battezzato dal governo “Carcere sicuro”. L’assunzione di 1.000 nuove unità per il Corpo della Polizia penitenziaria, lo snellimento delle procedure per concedere di uscire dal carcere in anticipo a chi ne ha diritto, più telefonate per i detenuti (da quattro a sei al mese). Inoltre, l’«istituzione di un elenco delle strutture residenziali idonee all’accoglienza e al reinserimento sociale di coloro che hanno i requisiti per accedere alle misure penali di comunità, ma che non sono in possesso di un domicilio idoneo e sono in condizioni socio-economiche non sufficienti per provvedere al proprio sostentamento», si legge nel comunicato. Sono queste alcune delle misure previste. «Oggi c’è un grande tema, che è quello della salute, che il decreto non affronta in realtà, nonostante sia il vero problema». A parlare è Michele Miravalle, coordinatore dell’osservatorio dell’associazione Antigone.

Miravalle, il decreto prevede l’assunzione di 1.000 agenti di Polizia penitenziaria. Serviranno anche a garantire più attività in carcere da parte di associazioni del Terzo settore, ultimamente rallentate e bloccate dalla burocrazia e dalla scarsità di personale?

Credo che la risposta sia no. È un provvedimento che va un po’ nella direzione opposta. Se si hanno delle risorse (che si hanno perché se si assumono 1.000 agenti vuol dire che si hanno delle risorse a bilancio), e si decide di spenderle solo per una delle categorie professionali che lavora in carcere, significa far passare ancora una volta una visione nel segno dell’ordine pubblico, della securitizzazione del carcere. Ci saremmo aspettati che, accanto ai 1.000 agenti, fosse bandito un nuovo concorso per educatori, piuttosto che per figure professionali che oggi non sono strutturali ma che, invece, dovrebbero diventarle.

Per esempio, quali figure professionali?

I mediatori linguistici o culturali, e anche gli educatori sportivi: figure nuove che potrebbero portare altri linguaggi all’interno del carcere, magari affidandosi anche alle associazioni del Terzo settore. Mi pare che un governo che dice «Prendiamo solo agenti» abbia una visione piuttosto securitaria, per quanto poi c’è un sottorganico di agenti, quindi ce n’è bisogno. Ma sarebbe stato più interessante se avessero pensato a 1,000 agenti più altre figure, oppure a 1.000 persone assunte tra agenti e altre figure, che invece che nel decreto non ci sono. C’è bisogno di una visione diversa.

Ci spieghi meglio.

C’è bisogno di una visione diversa della pena, innovativa. Oggi c’è un grande tema, che è quello della salute, che il decreto non affronta in realtà, nonostante sia il vero problema. Parlo ad esempio della salute mentale, che influenza anche i suicidi. Un decreto carceri avrebbe potuto ragionare, insieme alle regioni, su un allargamento delle figure professionali che oggi mancano in maniera cronica. Parlo degli psichiatri, dei tecnici della riabilitazione psichiatrica. Non si vede perché, in un decreto non si possano prevedere nuove risorse per le regioni per assumere queste figure che, non solo sono poche in carcere, ma in alcuni casi mancano del tutto. La salute è un grande tema su cui si sarebbe potuti intervenire, per quanto riguarda il personale.

C’è bisogno di una visione diversa della pena, innovativa. Oggi c’è un grande tema, che è quello della salute, che il decreto non affronta in realtà, nonostante sia il vero problema

Una novità del decreto è l’istituzione di un albo di comunità, adibite alla detenzione domiciliare, che potranno accogliere alcune tipologie di detenuti: quelli con residuo di pena basso, i tossicodipendenti e quelli condannati per determinati reati. In queste comunità potranno scontare il fine pena. L’intervento va nella direzione di consentire ai molti detenuti, soprattutto stranieri e senza residenza ufficiale, di avere un luogo per la detenzione domiciliare. «Siamo soddisfatti della scelta del governo di riconoscere le comunità come luoghi di espiazione della pena in alternativa al carcere. Questo governo ha ascoltato le comunità ed il mondo del Terzo settore ed ha inteso la grande opportunità che esse offrono», ha dichiarato Matteo Fadda, presidente della Comunità Papa Giovanni XXIII, in merito al decreto legge. Lei cosa ne pensa dell’istituzione dell’albo di comunità annunciata?

Noi sospendiamo il giudizio su questo punto. Scritto così come appare nel decreto, sulle comunità si rimanda tutto di sei mesi. Peraltro questo è parte del problema perché, se c’è un’emergenza legata alle condizioni detentive, rimandando di sei mesi si passa a dopo l’estate, che è un momento critico per i detenuti. Magari si poteva dare un segnale più immediato. Dicevo, sulle comunità si rimanda di sei mesi ad un regolamento, ad un non meglio specificato albo delle comunità e ci sarà sicuramente una discussione in questo periodo di tempo. La comunità è un bellissimo contesto, che però può diventare molto pericoloso.

Perché pericoloso?

Diventa pericoloso se trasformato in parcheggio o se, ad esempio, ci mettiamo a copiare delle cose fatte nella gestione dei migranti, con queste strutture molto grandi che alla fine sono dei contenitori di disagio: di quello non abbiamo bisogno. Se, invece, c’è la volontà di fare un ragionamento serio di comunità con standard alti, sia in termini di qualità degli spazi sia di qualità dell’intervento, è un meccanismo su cui possiamo anche ragionare insieme. Dalle notizie che abbiamo finora sul decreto non si capisce bene un punto, riguardo alle comunità.

Con questo decreto il governo prende atto di quello che diciamo da un bel po’: in carcere oggi, se analizziamo la popolazione detentiva, ci sono categorie che appartengono alla sfera non tanto della criminalità ma del disagio sociale

Quale?

Se ci si è limitati ad un piccolo allargamento delle possibilità che le persone già oggi hanno di scontare un pezzo della propria pena in comunità (per esempio, per i tossicodipendenti questa è una possibilità che già esiste), oppure se si pensa ad un significativo allargamento, ad esempio se tutti i detenuti a cui mancano quattro anni per il fine pena possono accedere a strutture comunitarie. Quest’ultimo sarebbe un altro conto. La nota positiva è che questa novità della comunità affronta un tema reale. Molte persone avrebbero i requisiti normativi per andare alla detenzione domiciliare già oggi, ma non ci vanno perché una casa non ce l’hanno: manca loro un domicilio idoneo. Questo governo mette nero su bianco un’idea, che già si proponeva da tempo, che queste comunità possano diventare domicili idonei per chi una casa non ce l’ha. Per le persone non in possesso di un domicilio idoneo queste comunità serviranno.

Sugli altri utilizzatori di queste comunità?

Oggi non riusciamo ad avere un quadro chiarissimo. Altro tema grosso delle comunità, che è in discussione, è che il governo sta pensando a strutture del privato sociale. Già si pensa a una privatizzazione in qualche modo, della pena: argomento che è molto delicato. La cosa positiva di questo decreto è una, soprattutto.


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Qual è la cosa positiva?

Con questo decreto il governo prende atto di quello che diciamo da un bel po’: in carcere oggi, se analizziamo la popolazione detentiva, ci sono categorie che appartengono alla sfera non tanto della criminalità ma del disagio sociale, nelle sue varie articolazioni: povertà, problemi di salute, devianza giovanile ecc. Verso queste categorie la risposta “carcerocentrica” non funziona. Le comunità vanno in questo senso, ci si è resi conto che una persona con pene basse, con problemi di tossicodipendenza, con un disagio sociale non deve stare in carcere ma ha bisogno di un altro tipo di intervento. Ma se queste sono le premesse del decreto, il risultato è un po’ la montagna che ha partorito il topolino.

Nelle notizie che abbiamo sul decreto, si parla di opportunità di reinserimento lavorativo per i detenuti?

Di lavoro in questo decreto c’è ben poco. Queste comunità potrebbero essere incentivate a muoversi, ad esempio potrebbero essere inseriti degli standard per queste strutture in termini di attività formative, lavorative, mettendo dei paletti rispetto ai risultati che queste comunità devono raggiungere. Sul lavoro interno non ci sono novità: il carcere ad oggi rimane un luogo in cui si svolgono attività per occupare il tempo e di contrasto all’ozio carcerario. È qualcosa di prezioso perché il tempo va occupato, ma siamo ben lontani da un vero e proprio reinserimento lavorativo. Continuano ad essere significativi i dati sulle persone che lavorano per datori di lavoro esterni all’amministrazione penitenziaria, che sono pochissimi. La maggior parte dei lavori di quel terzo dei detenuti che svolge una qualche attività lavorativa è, in realtà, impegnato in attività quali il porta vitto, le piccole manutenzioni, la pulizia delle sezioni. Tutte attività nobili che, però, appartengono alla sfera non del lavoro ma dell’occupazione del tempo.

Il carcere ad oggi rimane un luogo in cui si svolgono attività per occupare il tempo e di contrasto all’ozio carcerario

Nel decreto una novità riguarda le telefonate che possono effettuare i detenuti: passano da quattro a sei al mese.

Le telefonate avrebbero bisogno di un cambiamento. Siamo di fronte a un grande tabù del sistema penitenziario. In un mondo iperconnesso, in cui gran parte delle nostre giornate le trascorriamo al telefono, abbiamo delle regole penitenziarie che continuano a comprimere a una telefonata ogni tre-quattro-cinque giorni. È chiaramente una disposizione anacronistica e, in alcuni casi dannosa: non avere contatti stabili con i familiari e con l’esterno può portare, in momenti di fragilità, a situazioni più serie e disperate. Continua questo tabù: in carcere non si può comunicare. Questo tabù è giustificato solo in parte da ragioni di sicurezza, nei confronti di alcune categorie di detenuti una liberalizzazione delle telefonate non avrebbe nessun effetto negativo della sicurezza: su questo bisogna essere molto chiari. Bisognerebbe distinguere situazioni e situazioni, laddove non ci sono rischi evidenti per la sicurezza andare verso una liberalizzazione delle telefonate.

Aggiornamento delle 20,30: un suicidio a Firenze mentre muore a Livorno un detenuto in coma e che aveva cercato di uccidersi nei giori scorsi

Un detenuto 20enne si è ucciso nel carcere fiorentino di Sollicciano. Si tratta di un giovane tunisino arrivato in Italia ancora minorenne su un camion. Nella casa circondariale è scoppiata una protesta con lenzuola bruciate. Non si hanno notizie ulteriori. Sempre nella giornata di oggi, è morto a Livorno un detenuto che, nei giorni scorsi, aveva tentato il suicidio. Si tratta di un 35enne, in attesa di giudizio, che era stato soccorso ma che, per le gravi lesioni, era in coma. Il bilancio, dall’inizio dell’anno, è di 52 persone che si sono tolte la vita.

Nella foto in apertura, di Roberto Monaldo / LaPresse, il ministro Nordio nella conferenza stampa di ieri.

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