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Altro che D&I: le aziende preferiscono le multe, piuttosto che assumere persone con disabilità

Spiega Simona Cuomo, coordinatrice dell’Osservatorio Diversity&Inclusion della SDA Bocconi che in Italia la D&I è spesso molta teoria (nei discorsi pubblici, nelle dichiarazioni) e poca sostanza: scarseggiano le azioni concrete. Le aziende italiane, inoltre, tendono ad attivarsi principalmente negli ambiti in cui sono stati introdotti certificazioni o leggi da applicare: genere e disabilità. Anche qui, però faticano

di Sabina Pignataro

La crisi che sta investendo negli Stati Uniti il mondo della Diversity & Inclusion (D&I) arriverà anche in Italia? «E’ molto probabile», osserva Simona Cuomo, coordinatrice Osservatorio Diversity&Inclusion& wmart working della SDA Bocconi School of Management. Ma l’impatto sarà minore.

«La D&I – spiega la docente – In Italia è diffusa a livello molto teorico, nelle dichiarazioni, ma le aziende che hanno adottato un percorso di politiche e pratiche significativo sono ancora un numero limitato». Purtroppo la figura del D&I manager alcune volte viene inserita tra le funzioni delle risorse umane, altre volte in quelle del marketing,  a volte in quelle di chi si occupa di sostenibilità. «Altre è un cappello che alcuni professionisti indossano soprano altri cappelli». In generale, osserva, «c’è tanta forma ma molta poco sostanza: esiste una distanza tra quanto viene annunciato formalmente  e quanto viene messo in pratica concretamente».

In questa intervista, Cuomo, che è anche docente di Practice of Leadership  & Human Resources Management, scatta una fotografia a tinte fosche del settore italiano.

Simona Cuomo


Professoressa Cuomo, qualche giorno fa, su VITA, abbiamo raccontato come nel 2023, negli Stati Uniti «Meta, Tesla Lyft e X abbiamo  ridotto le dimensioni dei loro team D&I del cinquanta per cento». Secondo una inchiesta del Washington Post, Reuters e Revelio Labs, «l’ ondata di licenziamenti nel settore Big Tech ha colpito molto di più le figure professionali che si occupano di diversità, equità e inclusione (D&I) rispetto agli altri. (Per info)
Dal suo punto di vista privilegiato, come esperta della Bocconi, pensa che in Italia accadrà lo stesso?

È probabile che anche in Italia potremmo assistere allo stesso fenomeno.
Del resto, in un momento di contrazione economica e di restringimento del budget,  i ruoli di staff sono messi generalmente più in crisi rispetto ai ruoli di business. Inoltre l’Europa e quindi l’Italia, risente dei fenomeni socio-economici che arrivano dagli USA: pensiamo a  quanto è successo con “le grandi dimissioni”, subito dopo la crisi sanitaria, che in Italia non ha assunto le proporzioni che ha assunto oltreoceano.

Che impatto avrà  sulle politiche e pratiche di D&I in Italia?

In Italia siamo ancora agli inizi della costruzione di una strategia organica ed integrata per governare ed implementare la D&I in modo efficace e sostanziale. La maggior parte delle  aziende che dichiarano di fare D&I  nei discorsi pubblici, nelle dichiarazioni, nelle comunicazioni e nei documenti ufficiali, nelle carte dei valori e nei codici etici è molto attenta agli aspetti reputazionali e di compliance. Le aziende italiane tendono ad attivarsi soprattutto negli ambiti in cui sono stati introdotti framework, certificazioni, indici o leggi da applicare».

Ci può spiegare?

Nelle ricerche  si evidenzia come il genere e la disabilità siano i temi D&I più affrontati. In entrambi i casi la spinta normativa è un fattore importante: mi riferisco alla  certificazione  di genere e agli obblighi  di legge da rispettare.  

Cosa ne pensa delle policy sulla disabilità?

La maggior parte delle aziende preferisce pagare una multa (per non aver rispettato gli obblighi previsti dalla legge 68/99 ) piuttosto che assumere persone con disabilità. Ricordiamo che le aziende con più di 50 dipendenti devono assumere persone con disabilità per una quota pari al 7% degli occupati; per i datori di lavoro che occupano da 36 a 50 dipendenti, l’obbligo di assunzione è di due lavoratori; per i datori di lavoro che occupano dai 15 ai 35 dipendenti, l’obbligo di assunzione è di un lavoratore.  

La maggior parte delle aziende preferisce pagare una multa piuttosto che assumere persone con disabilità. La legge 68/99 è spesso è vissuta come «un tunnel», «una prigione», «una montagna da scalare», un obbligo cui adempiere

Simona Cuomo

Come mai?

Malgrado sia considerata una buona legge dai diversi portatori di interesse, secondo una ricerca dell’Osservatorio Diversity, Inclusion & Smart Working di SDA Bocconi, la 68/99 è spesso è vissuta dai datori di lavoro come «un tunnel», «una prigione», «una montagna da scalare», un obbligo cui adempiere, senza che sia adottata una visione ampia della gestione dei lavoratori nella quale rientri anche il tema della disabilità.
Spesso, i datori di lavoro fanno resistenza ad assumerle e parlano di paura e incertezza rispetto alle capacità, competenze ed esperienze lavorative: percepiscono costi di gestione elevati, investimenti in formazione e supervisione a fronte di una bassa aspettativa nei livelli di prestazione.
Sempre secondo la ricerca menzionata, se emerge un grande sforzo nelle fasi iniziali del ciclo delle risorse umane, emerge invece una scarsa attenzione nelle fasi di sviluppo/carriera, lasciando la gestione della persona esclusivamente alla sensibilità e alla bravura del responsabile.

Quale?

La grande maggioranza delle aziende (82%) ha al proprio interno persone a supporto della disabilità, specialmente Disability manager (presso il 48% delle aziende) o team dedicati (41%), mentre nel 20% delle imprese sono presenti tutor, che dipendono soprattutto dalle risorse umane e per la maggior parte dei quali è prevista una formazione specifica (presso l’82% delle aziende intervistate).
Eppure, nelle 100 aziende riconosciute e definite come «top» nella classifica Fortune, poco meno della metà dichiara di includere espressamente le persone con disabilità nella definizione di diversity workforce. Quando è inserita, la categoria disabilità è citata solo nella dichiarazione sulle pari opportunità, ma non è chiaro quali siano le politiche rivolte a questo gruppo. C’è una contraddizione.

Questo non aiuta lo sviluppo di una vera D&I

Infatti la disabilità, subito dopo l’anzianità, è percepita dai lavoratori come il principale stigma nei processi di assunzione e di carriera; se la persona con disabilità è una donna la strada risulta ancora più in salita.

A proposito di donne, come valuta i progressi fatti sulla parità di genere?

Un corso di 10 ore sulla leadership al femminile non smuove molto nella cultura aziendale. Anche la legge Golfo Mosca (quella che ha previsto le quote rosa nelle società quotate) ha avuto un effetto positivo perché ha guidato un percorso verso la parità numerica, un cambiamento che diversamente avrebbe avuto bisogno di più. Ma il cambiamento culturale legato alla costruzione di nuovi modelli di leadership e di priorità strategiche, non è ancora avvenuto.
Il recente rapporto della Banca d’Italia, “Le donne, il lavoro e la crescita economica”,  che analizza le disparità di genere nel mercato del lavoro italiano, la partecipazione femminile è ancora oggi ostaggio di criticità strutturali a livello retributivo, settoriale e meritocratico. Tre, in particolare, i principali fattori che penalizzano le donne: la retribuzione oraria inferiore, il minor numero di ore retribuite, il minor tasso di occupazione. Soprattutto in presenza di figli.

La maternità non è sempre accolta favorevolmente …

La maternità nella vita professionale delle donne è stata per lo più vissuta come uno stigma, nonostante alcuni inizino a sottolineare che le competenze di cura e di gestione della famiglia potrebbero rappresentare un vantaggio nella vita professionale. Ciononostante, la child penalty è significativa: tra le madri occupate, a 15 anni dalla nascita la retribuzione annua è circa la metà di quella delle donne senza figli, principalmente per l’inferiore numero di settimane lavorate.

Per quanto riguarda la gestione della diversità etnica, culturale e religiosa?

Siamo ancora in uno stato embrionale.  Sul primo fronte incide molto il fatto che i lavoratori non di origine italiana vengano segregati in posizioni e/o professioni/mestieri non qualificate, per le quali, le prospettive di sviluppo e di carriera sono limitate. Religione e religiosità sono due aspetti entrati a far parte della gestione della diversità solo recentemente e in maniera piuttosto dibattuta. C’è poco da rilevare anche per ciò che riguarda la tutela dei diritti delle persone LGBTQI+ e per ciò che riguarda le discriminazioni su base generazionale.

Cosa occorrerebbe fare?

La D&I richiede un percorso di lungo periodo: non bastano azioni tattiche ed episodiche.  Occorre una strategia integrata, olistica, che guidi un solido cambiamento culturale. Occorre guardare al di là della singola iniziativa e pensare ad un progetto più strutturato che abbia effetti nelle strategie commerciali, nello sviluppo dei prodotti, nella comunicazione aziendale, nel marketing, nella responsabilità sociale d’impresa. Senza tale finalità, la gestione della diversità viene implementata in modo accessorio con intenti strumentali e tattici. Inoltre è importante ricordare che non esiste una soluzione di D&I valida per tutti, ma esiste un tipico viaggio che un’organizzazione può fare prima di decidere quali processi e programmi mettere in campo, fatto di ascolto dei bisogni delle persone

L’inclusione è conveniente in ottica di business?

Rispondo in modo netto: se un’organizzazione chiede una giustificazione economico-aziendale dell’inclusione, sta già sbagliando in partenza. Le organizzazioni dovrebbero cercare di diventare più inclusive perché è giusto così.

Se un’organizzazione chiede una giustificazione economico-aziendale dell’inclusione, sta già sbagliando in partenza. Le organizzazioni dovrebbero cercare di diventare più inclusive perché è giusto così

Simona Cuomo

Nel 2023 lei ha scritto un libro, L’organizzazione inclusiva” (Egea edizioni) insieme ai colleghi Stefano Basaglia e Zenia Simonella. Le chiedo allora: che cos’è un’organizzazione inclusiva?

È un’organizzazione che non solo non teme le diversità dei lavoratori, ma le fa proprie affinché essi possano liberamente agire le proprie identità; inoltre, combatte gli stereotipi, i pregiudizi e le discriminazioni, gestisce i conflitti che scaturiscono dalle diversità, escludendo chi genera conflitti intrattabili; tratta con dignità tutti i lavoratori dando loro una giusta retribuzione, un buon bilanciamento tra vita privata e lavorativa; garantisce a tutti la possibilità di partecipare in maniera formale e sostanziale ai processi decisionali.

Quando non lo è?

Non è inclusiva quell’organizzazione che esclude i lavoratori in base alla loro identità, segrega funzioni, posizioni e ruoli in relazione a specifiche caratteristiche, paga stipendi che non consentono ai propri dipendenti di vivere in modo dignitoso e fa variare lo stipendio in base all’identità individuale; ma anche, quell’organizzazione che impone carichi di lavoro che creano conflitti tra il lavoro e la vita privata, e che ha un rapporto tra retribuzione massima e minima che eccede un determinato livello (per esempio, l’olivettiano rapporto di 1 a 10).

In apertura, foto di geralt by Pixabay


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