Non profit

Alle radici dello schiavismo e della ipocrisia

In una settimana in cui pare che la panacea d'ogni male e insicurezza sociale ed individuale sia qualche pistolettata in più e una carcerazione di massa.

di Riccardo Bonacina

In una settimana in cui pare che la panacea d’ogni male e insicurezza sociale ed individuale sia qualche pistolettata in più e una carcerazione di massa, meglio se preventiva, e meglio ancora se definitiva dopo un sol grado di processo, abbiamo trovato conforto nella lettura di due nuovi e straordinari libri che avvertono degli effetti di una sorta di “Chernobyl” culturale che ci rende sempre più estranei gli uni dagli altri, sempre più lontani dai fatti elementari della vita, della nostra stessa vita. Il primo è il romanzo di Luca Doninelli, La nuova era (ed. Garzanti), un fotografia perfetta e impietosa di un’epoca che di nuovo ha soprattutto questa impercettibile, eppure così devastante, malattia che intacca la natura più intima dell’io e quindi la natura stessa della libertà. Ad altri più competenti toccherà sottolineare la grandezza letteraria del romanzo, noi ci limitiamo a osservare questa sua assoluta contemporaneità, qualità rara nella letteratura d’oggi. Il professore universitario protagonista del romanzo ad un certo punto constata: «Sono ormai solo le nostre opinioni sulle cose irreali a differire, per il resto nessuna differenza». Il secondo libro è scritto proprio da un professore universitario, Marco Revelli, si intitola Fuori luogo (ed. Bollati Boringhieri); cento pagine per raccontare la storia di una battaglia persa e trarne qualche morale. La battaglia che Revelli racconta è quella di chi ha cercato di difendere i diritti elementari di una comunità rom di quasi 400 persone in fuga dalla povertà e da una nuova persecuzione in Romania che cerca rifugio in un campo in corso Cuneo al confine tra la Torino della Sindone e dei santi sociali, delle grandi famiglie filantropiche e del movimento operaio, e Venaria Reale, il comune più “a sinistra d’Italia”. La storia che Revelli ci racconta, seppur ben scritta, è scevra di ogni retorica piena com’è di date, nomi, descrizioni di incontri, di scontri e uffici competenti. È una storia che ha un inizio, il 15 novembre del 1998 quando Revelli con qualche amico va per la prima volta al campo nomadi a dormire cercando “con un brandello di condivisione di attirare lo sguardo di una città su un problema neppure gigantesco”, e una fine, l’8 febbraio 1999, quando, reso ormai vano ogni tentativo di soluzione, l’irruzione della polizia rende esecutivo il deportation order sino alla distruzione del campo. Anche i protagonisti della storia hanno un volto, un’identità, una realtà, si chiamano Zoltan, Poligrad, Belgian, Kerim, Alina, c’è anche Dolar, e persino Maradona e Adriano Celentano, sono questi alcuni dei nomi dei 386 rom, di cui 175 minori, 32 lattanti, 30 donne in stato di avanzata gravidanza cui né Torino né Venaria Reale sono stati in gradodi dare un minimo di accoglienza.

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