Welfare

allarme banlieue come si crea un’emergenza

In un convegno si parlava di integrazione e invece...

di Redazione

Non corriamo il rischio di rivolte simili a quelle francesi. Questa la tesi del dibattito in Cattolica. Che sui giornali
si è trasformata in: «Ecco la mappa delle banlieue d’Italia»di Lubna Ammoune
Ho seguito con interesse un convegno sull’integrazione che definirei una voce fuori dal coro. È stata l’occasione per discutere una ricerca curata dalla facoltà di Sociologia dell’Università Cattolica di Milano e promossa dal ministero dell’interno. Un convegno dalle tesi inaspettate che stravolgono le più comuni percezioni che abbiamo, addetti ai lavori compresi. Peccato che a poche ore di distanza sui giornali sia stato pubblicato l’esatto contrario di quanto sostenuto nella pubblicazione presentata, Per un’integrazione possibile, periferie urbane e processi migratori (a cura di V. Cesareo e R. Bichi, Milano, Franco Angeli, 2010).
Anche in Italia corriamo il rischio banlieue? Questa è la domanda che ha animato il dibattito e la cui risposta è stata riportata in maniera sfasata negli articoli. Nella conferenza si è spiegato il perché non c’è motivo di credere che si è prossimi a una situazione simile a quella francese. Da noi l’espansione delle periferie ha seguito un percorso del tutto diverso, l’immigrazione ha trovato diversi modi di radicarsi.
Ma nei nostri quotidiani cos’è stato scritto? Tutto il contrario, tanto da definire i territori scelti per l’indagine, nel suo insieme, come «la mappa delle banlieue d’Italia». L’argomento è delicato ed è motivo di disagio e allarmismo.
Dall’indagine emerge che la seconda generazione di nuovi italiani comincia a formarsi in questi anni e anche per questo è difficile prevedere la possibilità a casa nostra. La tesi è chiara e trova la sua ragion d’essere nella dimensione strutturale e nella convivenza tra italiani e stranieri. Sui giornali, invece, si scrive – senza se e senza ma – che «c’è un pericolo banlieue perché c’è una seconda generazione di immigrati che è alla ricerca di una propria identità. Sono giovani che subiscono angherie e prima o poi reagiranno. Il disagio si sente, si tocca, e può diventare una polveriera». L’analisi condotta centra in pieno le implicazioni della comunicazione e la paura percepita dagli italiani, che è il più delle volte amplificata e non proporzionale agli episodi di criminalità. Nell’amplificazione della paura giocano un ruolo rilevante i media e i giornalisti tanto che «oggi la gente è quasi masochisticamente desiderosa di cattive notizie».
Alla luce della tesi supportata si capisce meglio la polemica nata dalla dichiarazione del sindaco di Milano, Letizia Moratti («I clandestini che non hanno un lavoro regolare, normalmente delinquono»), mentre nella ricerca si sostiene che clandestinità e criminalità non sempre coincidono. Uno degli obiettivi dell’esposizione dei dati è suggerire strategie e proposte di intervento laddove sussistono i reali e più urgenti problemi che sono ancora questioni aperte, come i problemi culturali e comunicativi e la carenza di politiche sociali per le aree a rischio. A tal riguardo, nessun cenno sui quotidiani dedicati, in gran parte, se non in tutto il cartaceo e l’online, alle banlieue e alla criminalità. Tra le dichiarazioni di chi ha partecipato si legge quella del ministro Maroni: «Per prevenire il rischio che scoppino anche in Italia i disordini avvenuti qualche anno fa nelle banlieue parigine, occorre agire di concerto tra governo, ministero dell’Interno e Comuni per definire così un modello italiano di gestione dei processi di integrazione degli stranieri. La ricerca dice chiaramente che ci sono dei rischi nelle nostre città che avvenga ciò che è successo nelle banlieue parigine».
Ma il punto sembra un altro: manca la volontà di gestire con mezzi adeguati e intelligenza i problemi posti dall’immigrazione. Coloro che credono che il fenomeno banlieue sia per adesso un falso allarmismo peccano forse di buonismo? La ricerca sostiene il contrario e i suoi dati ne sono la conferma, se solo si leggessero per intero.

Cosa fa VITA?

Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è  grazie a chi decide di sostenerci.