Non profit

Alla ricerca dell’impatto

di Bernardino Casadei

Il concetto d’impatto sta suscitando un crescente interesse da un numero sempre più vasto di soggetti. Nel Regno Unito è stato avviato un ambizioso processo decennale con l’obiettivo di “ispirare impatto”, mentre in Italia Sodalitas ha recentemente organizzato un convegno ed ora vorrebbe promuovere la nascita di un gruppo di lavoro sul tema. Si tratta di un’esigenza sicuramente molto valida che risponde ad un bisogno di responsabilizzazione dopo che, per decenni, ci si è concentrati solo sul rispetto di procedure, modalità che non ci ha permesso di conseguire gli obiettivi sperati e che è, almeno in parte, responsabile per l’alienazione che spesso caratterizza il mondo del lavoro nel terziario avanzato in genere e nel privato sociale in particolare. L’assolutizzazione degli standard non si sta affatto rivelando il modo più efficace per garantire la qualità del servizio, dato che i bisogni umani sono sempre specifici ed unici.

Naturalmente, come tutte le nuove prospettive che suscitano giustificate speranze e che meritano di essere approfondite, anche questa nasconde però alcune insidie di cui è forse opportuno essere consapevoli per valorizzarne al meglio le potenzialità. Non sono pochi infatti coloro che vedono nella misurazione dell’impatto una formula per decidere, in modo quasi automatico, come allocare risorse ed, apparentemente, il discorso non fa una grinza. Tenuto conto che le risorse sono scarse è opportuno destinarle per quelle iniziative che sono in grado di conseguire un maggiore impatto. Ma forse, parlando di impatto, bisogna riflettere a quali potrebbero essere le conseguenze di un simile approccio.

Se la misurazione dell’impatto diventa un criterio fondamentale per premiare o sanzionare i comportamenti dei vari soggetti operativi, si rischia di generare comportamenti opportunistici che potrebbero vanificare quello che è il vero valore di questo approccio, ossia stimolare una tensione volta ad apprendere al fine di migliorare la propria operatività. In primo luogo è facile trasformare gli indicatori in obiettivi e, dato che questi per loro natura non possono mai essere specchio fedele ed esaustivo del reale, si rischia di ottenere ottime performance, ma scarso impatto reale. Del resto abbiamo tutti potuto leggere sui giornali le storie dei manager che avevano portato al fallimento le loro imprese, ma che nel contempo meritavano il premio di produzione.

Se coloro che operano nel privato sociale sono così restii ad utilizzare metriche è proprio per il timore che esse possano essere utilizzate contro di loro. Uno dei principi affinché la misurazione dell’impatto possa funzionare è che essa operi in un contesto di fiducia e rispetto reciproco, ma se le risorse di cui uno ha bisogno di operare dipendono proprio da questi indicatori, è ben difficile mantenere una tale trasparenza e purezza di rapporti. La tentazione a manipolare i dati diventerà quasi irresistibile. Del resto, basta pensare ai dibattiti politici dopo le elezioni, per sapere come sia  quasi sempre possibile individuare una qualche metrica in grado di dare una base oggettiva alla propria tesi.

Un altro aspetto che bisogna considerare è che in una realtà estremamente complessa come quella in cui siamo chiamati ad operare, quasi mai l’impatto dipende dall’agire di un singolo soggetto. Dimostrare come un cambiamento sociale sia chiaramente imputabile ad una particolare attività è un compito estremamente complesso, oneroso e tutto sommato inutile, in quanto non abbiamo alcuna garanzia che quanto è avvenuto in un determinato momento storico possa ripetersi in un contesto che sarà necessariamente diverso. Davanti alla complessità dei problemi che ci troviamo ad affrontare per cui non abbiamo alcuna garanzia che ciò che ha funzionato una volta funzioni anche la volta successiva, è illusorio correre dietro a soluzioni da applicare più o meno meccanicamente, quello che necessitiamo è la capacità di rispondere in modo flessibile ai problemi sempre diversi con cui la realtà ci impone.

Ci troviamo quindi nella situazione paradossale in cui l’unica cosa che è veramente importante è l’impatto,  ma in cui non è possibile stabilire in modo rigoroso nessi di causalità chiari ed univoci. Per risolvere la contraddizione per cui ognuno di noi deve sentirsi responsabile di un impatto che non dipende da lui, una via consiste nel ricordarsi che il vero valore aggiunto della ricerca dell’impatto non coincide nei risultati oggettivi rigorosamente misurati attraverso la batteria di indicatori implementata a tal fine, ma nel processo volto a generare un’attenzione da parte di ogni operatore nel fare tutto quanto è per lui materialmente possibile per conseguire l’obiettivo stabilito, nella consapevolezza che il risultato, sia esso positivo o negativo, non dipende da lui. Il vero fine delle metodologie volte a misurare l’impatto dovrebbe dunque essere quello di mettere a disposizione di ogni operatore un processo di riflessione sempre più raffinato che gli permetta di mostrare, prima di tutto a se stesso, che egli ha effettivamente fatto tutto quanto gli era umanamente possibile per conseguire l’obiettivo, indipendentemente dal risultato finale.

“Far quel che si può, avvenga ciò che deve”. L’attenzione sull’impatto può aiutarci a riscoprire questa verità. Non sempre la via più diretta è la migliore e, a volte, bisogna riconoscere nell’impatto una conseguenza e non un fine del nostro agire superando così quella dicotomia fra etica della testimonianza ed etica della responsabilità che si fonda su un presupposto razionalistico, presupposto destinato a soccombere davanti alla critica nichilistica. Non vi è testimonianza senza responsabilità e, forse, il compito più importante per la filantropia istituzionale non è quello di ricercare la soluzione astrattamente più efficiente subordinandosi ad un pensiero strumentale che troppo spesso finisce per negare la dignità della persona, ma aiutare chi opera nel bene comune a testimoniare responsabilmente i propri valori, nella speranza che, in un mondo complesso come il nostro, non è improbabile che, alla fine, questa strada si riveli, anche in termini di risultati, più feconda dell’altra.

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