Inizio questa riflessione, non con poche difficoltà, partendo dal titolo del documento che ha attivato questo confronto: “Per un’economia più giusta. La cooperazione come argine delle disuguaglianze e abilitatore di giustizia sociale”. Nel documento viene rappresentato un paradigma importante, che senza giri di parole, indica la centralità del coinvolgimento e del protagonismo dal basso per progettare ed operare in questo tempo di contraddizioni e crisi. Pongo l’accento sui termini contraddizione – crisi che troppo spesso depotenziamo nei nostri ragionamenti e nelle nostre pratiche, trascurando l’implicita complessità spesso violenta determinata dalle mutazioni in corso. Una retrospettiva degli ultimi decenni mette in evidenza come la cooperazione (specialmente quella di lavoro) – nel nostro Paese – abbia posto come prioritario il rapporto utilitaristico tra socio-lavoratore e cooperativa quale legame principe di mutualità tra organizzazione e soci, deformando e contraendo il principio originale della cooperazione tra soggetti.
Di conseguenza autogestione e autorganizzazione vengono subordinate alla gestione laburista e alle presunte garanzie espresse dalla società del lavoro, determinando un progressivo impoverimento del pensiero e delle motivazioni nello spazio cooperativo, che viene di conseguenza percepito come semplice luogo di lavoro. Ad amplificare ciò, nella nostra storia recente, c’è stato anche il fenomeno abnorme dell’esternalizzazione dei servizi (dal facility management alla sanità – etc.) da parte delle P.A. e, di conseguenza, la logica e la gestione degli appalti. In questo frangente il lavoratore assume un’identità ibrida: da un lato cooperatore e dall’altro lavoratore pubblico declassato. Non intendo in alcun modo mettere in discussione il diritto di un lavoratore di mantenere il proprio posto di lavoro in caso di cambio appalto, evidenzio però che il turnover – da cooperativa a cooperativa – di molti lavoratori ha spostato, nel vissuto delle persone impiegate nell’appalto, la loro percezione di appartenenza. In questo contesto viene anche indebolita la fidelizzazione della relazione col cliente, che si annacqua e scompare sottotraccia tra le pieghe dei vari codici degli appalti, da cui consegue il depotenziamento delle relazioni nella costruzione di economia sociale con le P.A..
La centralità di un approccio a sembianza neoliberista da parte delle P.A. – schiacciate in un’effettiva carenza di risorse – ha fatto sì che l’economia pubblica delle esternalizzazioni – in una corsa al risparmio – generasse importanti flussi economici nei quali si è consumato un conflitto sostanziale e inespresso: cooperazione vs concorrenza. Il deficit della cooperazione nel rapporto con il pensiero forte della libera concorrenza avrà un esito scontato.
Gli appalti pubblici sono diventati asset finanziari in cui il soggetto gestore ha concorso e concorre in uno spazio economico liquefatto dal capitalismo finanziario. Le grandi cooperative mobili attraversando spazio, tempo e denari si sono adeguate mutando, alcune hanno modificato la propria forma impresa, altre invece sono rimaste tali assumendo forme perverse per garantire la redditività in entrambi i casi generando stravaganti alchimie nella gestione del lavoro e del rapporto societario. Tale adeguamento è funzionale alla capacità estrattiva del valore economico dai vari livelli in cui la plus valenza viene isolata e indirizzata verso sovrastrutture o interessi privati.
In questo contesto la cooperazione si smarrisce e perde appeal nello spazio sociale e nelle relazioni interne, specialmente nei confronti delle persone che ogni giorno lavorano per generare la ricchezza che non vedono né percepiscono perché troppo lontana.
Noi – critici visionari allampanati – siamo consapevoli che la costruzione di legami e l’attivazione di economie generative per luoghi e comunità, oggi più che mai, non possono essere uno slogan, ma semmai risposte costruite con approccio scientifico ad un bisogno sociale profondo nella ricerca di strumenti e luoghi per l’autodifesa da un divenire minaccioso.
Per anni abbiamo sostenuto, praticato e organizzato luoghi in cui i saperi bottom up incrociano quelli di natura top down, e dove la pratica è conoscenza quanto la teoria. Abbiamo assunto, in maniera più o meno consapevole, un agire più operaista che laburista, ma probabilmente abbiamo sottovalutato che il capitalismo in continua mutazione aveva innanzitutto riarticolato la strategia estrattiva nel lavoro, nell’energia e nell’ambiente. Questa capacità mutante associata al continuo aumento delle velocità di trasformazione ha generato smarrimento nello spazio sociale.
Siamo di fronte a città che non ci curano né accolgono e ad un lavoro che non ci rende liberi. La cooperazione che abbiamo sostenuto (anche se eravamo un po’ distratti) ha nella sua etimologia la parola opera in tutta l’intensità del suo significato, per cui avevamo immaginato che operando in forma organizzata avremmo generato e scambiato prodotti e servizi, posizionando perciò tra fare e commercializzare un progetto di sviluppo condiviso. In questa cooperazione immaginata, la soggettività e la collettività si incontrano e progettano liberando energie e saperi dal basso, in un dialogo permanente con altri saperi e generando luoghi e motori del pensiero per uno sviluppo armonico di nuove reti sociali attraversando il ventre della bestia dell’economia e del lavoro.
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Tra il dito e la luna, penso che la cooperazione oggi debba fare un atto di coraggio profondo ammettendo che se gli obiettivi e le strategie sono quelli indicati nel documento in oggetto, non è sufficiente oggi una riforma o una rifondazione del sistema cooperativo nello spazio dell’economia sociale. Serve un punto di discontinuità col passato prossimo per una riconversione dei modelli produttivi/distributivi senza rinnegare nulla.
Concludo con nobile datata citazione: la follia è l’assenza di opera (Michel Foucault)
Chi è: Stefano Mantovani dal 2009 è presidente del c.d.a. della cooperativa sociale Noncello di Pordenone in questo periodo ha operato innanzitutto sulla crisi determinata dalla modifica
del modello produttivo della cooperativa immaginandola in un processo di riconversione verso economia sociale.
Foto di apertura: Cooperativa Noncello-archivio VITA
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