Cooperazione internazionale
Alberto Trentini e gli altri 1.300 italiani come lui
«Sono più di 1.300 i cooperanti italiani che si trovano attualmente all’estero. È un numero significativo, ma per difetto, non tutti sono assicurati con noi». A dirlo è Cinzia Giudici, presidente di Siscos. La cooperante di Fondazione Avsi in Messico Flavia Maurello: «Fare cooperazione significa mettersi al servizio degli altri, anche con le proprie competenze, ed esporsi. Questo ovviamente è un rischio. Fare il cooperante vuol dire veder fiorire dei semi, portare ad una crescita migliore delle comunità»
Dal 15 novembre scorso non si hanno notizie di Alberto Trentini, cooperante veneto di 45 anni che quel giorno è stato fermato dalle autorità venezuelane, mentre si recava per lavoro da Caracas a Guasdualito, nel sudovest del Paese. Era arrivato in Venezuela un mese prima, con la ong Humanity & Inclusion per portare aiuti umanitari alle persone con disabilità.
Secondo quanto reso noto finora, l’uomo sarebbe stato trasferito nella capitale venezuelana e portato in una struttura di detenzione, ma le autorità non avrebbero ancora formalmente contestato delle accuse nei suoi confronti. La famiglia ha lanciato un appello al Governo italiano «per porre in essere tutti gli sforzi diplomatici possibili e necessari, aprendo un dialogo costruttivo con le istituzioni venezuelane, per riportare a casa Alberto e garantirne l’incolumità».
Sul caso è intervenuto il ministro degli Esteri Antonio Tajani, che ha fatto convocare «l’incaricato d’affari del Venezuela per protestare con forza per la mancanza di informazioni sulla detenzione» e «per contestare l’espulsione di tre nostri diplomatici da Caracas. L’Italia continuerà a chiedere al Venezuela di rispettare le leggi internazionali e la volontà democratica del suo popolo», ha scritto su X. «Stiamo lavorando e non è il momento delle polemiche», ha raccomandato Tajani, chiarendo: «La sua detenzione non è una rappresaglia di Nicolas Maduro». Parole dette con l’obiettivo di svelenire il più possibile le tensioni con il regime di Caracas, che due giorni fa ha annunciato di voler ridurre a tre il numero dei diplomatici di Italia, Francia e Olanda come «risposta alla condotta ostile dei loro governi».
Più di 1.300 italiani cooperano nel mondo
Alberto Trentini è uno degli oltre 1300 italiani che stanno cooperando, attualmente, in altri Paesi. Secondo i dati di Siscos (Servizi per la cooperazione internazionale), associazione specializzata in assicurazioni sanitarie internazionali per espatriati della cooperazione Internazionale e delle ong, in questo momento sono 1.329 i cooperanti italiani all’estero. «Sono numeri per difetto (non tutti i cooperanti italiani sono assicurati con noi), ma sono ampiamenti significativi», dice Cinzia Giudici, presidente di Siscos.
La solidità dell’organizzazione è fondamentale
«Trentini è stato arrestato in Venezuela. In America Latina si sono fatti tantissimi progetti con ottimi successi, con grande possibilità di replicarli, di fonderli. Ci sono delle situazioni che possono essere del tutto imprevedibili nel mondo», continua Giudici. «Noi cerchiamo di far comprendere che è importante che i cooperanti e i volontari che vanno in Paesi in cui le situazioni sanitarie e di sicurezza sono precarie, siano assicurati, per avere riferimenti immediati in caso di qualunque evento negativo possa capitare. La struttura, la solidità dell’organizzazione con cui si parte, come volontari o come cooperanti, è fondamentale: vuol dire garantire un’immediata possibilità di intervento di vario tipo».
A differenza di eventi passati, la presidente specifica che «questo non è un rapimento, è un arresto, è una cosa ben diversa. Parliamo di una persona che ha una grossa esperienza. Trentini non è un improvvisato che è andato all’estero, come purtroppo in certi casi è accaduto. Per certi aspetti, preoccupa un po’ di più. Si tratta di una persona che fa questo lavoro da molti anni». Trentini su LinkedIn si definisce un «professionista con oltre 10 anni di esperienza nei settori dello sviluppo e umanitario con ong internazionali in Sud America, Etiopia, Nepal, Grecia e Libano».
Il silenzio aiuta
Quando accade un fatto, come l’arresto di un cooperante, «è importante che venga allertata immediatamente l’ambasciata, ma meno clamore si dà alle situazioni meglio è». In questo caso la famiglia, come fece quella della giornalista Cecilia Sala, ha chiesto il silenzio stampa. «È importante per lasciare che le cose possano andare avanti senza interventi, senza giudizi, senza rischiare che qualcosa possa irritare nel momento della trattativa». Ma la famiglia Trentini, dopo due mesi in cui non si hanno notizie di Alberto, ha chiesto al nostro Governo di «forzare il silenzio».
Nel caso di Trentini, i familiari sono assistiti da Alessandra Ballerini, che è l’avvocata della famiglia di Giulio Regeni. «Una persona di grandissima esperienza e capacità anche negoziali, per cui certamente la situazione è in ottime mani. Finché l’ambasciata e l’avvocata non saranno almeno in grado di capire i motivi per cui è stato arrestato, l’ansia cresce. Speriamo che si conoscano presto il luogo in cui si trova e quali sono le accuse, in modo che si sappia come muoversi e possano essere avviate le trattative».
Fare il cooperante vuol dire avere la soddisfazione di vedere dei risultati. Vuol dire veder fiorire dei semi che si piantano e vedere che l’impatto di quello che si è seminato può portare ad una crescita migliore delle comunità, delle persone che si incontrano
Flavia Maurello
La fluidità del lavoro
Lavorare nella cooperazione com’è oggi, rispetto al passato? «Rispetto a quando ho cominciato a lavorare io, decenni fa, la situazione è veramente cambiata: è più complicata, più fluida, a volte ci si muove male. Mi riferisco anche ai nostri partner locali, che continuano a essere il riferimento fondamentale per la nostra sicurezza. A volte loro stessi sono in difficoltà a comprendere quello che sta accadendo effettivamente nel loro Paese, nella loro regione. Però continuiamo a pensare che ci possano essere dei punti di riferimento importanti per garantire la sicurezza dei nostri assistiti», prosegue Giudici, «con tutta una serie di riferimenti locali e solidi, che vanno dai rapporti con le ambasciate, che devono sempre sapere come ci muoviamo e dove siamo, ai nostri partner locali, oltre all’appartenenza a un’organizzazione che abbia una sua solidità, una sua capacità di gestire anche l’urto di un evento quale un arresto».
Il rischio della paura diffusa
Il pericolo, quando succedono fatti come quello di Trentini, è che si crei una paura diffusa, «che allontana i giovani dalla cooperazione internazionale. Si tratta non solo di un lavoro importante, ma di una professione che può dare veramente delle grosse soddisfazioni. Oggi il panorama della cooperazione è cambiato e vede un protagonismo importante del personale locale, anche qualificato. Questo è stato possibile grazie alla formazione e al capacity building che hanno prodotto tante persone e tanti cooperanti. Il bisogno non è estinto, c’è ancora molta necessità».
Non si tratta più di andare a portare il sapere «ma di crescere in ruoli e relazioni che sono importanti. Oggi avere persone, giovani o meno giovani, che abbiano una buona competenza, che continuino a svolgere il lavoro di cooperante, è vitale. In un momento così difficile, così divisivo, diventano fondamentali le persone che cercano di creare ponti, vicinanze, conoscenze reciproche profonde. Secondo noi», continua Giudici, «è l’unico modo per creare delle basi per una pace seria: conoscersi, rispettarsi diventa una possibilità, una capacità, una possibilità in più per la pacificazione».
Giudici è convinta anche che «lavorare soprattutto con le donne sia un asset importante perché sicuramente, per la nostra esperienza, sappiamo che, quando viene permesso loro di partecipare ai percorsi di pacificazione, costituiscono una componente fondamentale. Spesso le donne vengono messe in secondo piano, però sta sempre a noi riuscire a dare loro delle capacità, delle possibilità che le possano rendere protagoniste».
La testimonianza di una cooperante
«Quando qualcuno mi chiede “Cosa significa fare la cooperante per te”? la reputo una domanda sempre molto interessante. Fare cooperazione significa mettersi al servizio degli altri, anche con le proprie competenze, ed esporsi. Questo ovviamente è un rischio, penso anche al collega Alberto Trentini che ormai da due mesi è trattenuto in Venezuela senza nessuna notizia, dice Flavia Maurello, cooperante da 11 anni, responsabile dei progetti Avsi prima in Haiti e ora in Messico. «Vuol dire ovviamente impegnarsi, arrivare a fine giornata stanchi, con tante ore di lavoro a fianco del personale locale, che è straordinario».
Fare il cooperante, continua Maurello, «vuol dire avere la soddisfazione di vedere dei risultati. Vuol dire veder fiorire dei semi che si piantano e vedere che l’impatto di quello che si è seminato può portare ad una crescita migliore delle comunità, delle persone che si incontrano. Ho incontrato Avsi 10 anni fa, dopo la laurea in Relazioni internazionali volevo iniziare a lavorare nei progetti di sviluppo. Sono partita per Haiti la prima volta nel 2014, senza avere in mente cosa fosse la cooperazione allo sviluppo. Ci sono tanti modi di fare cooperazione», prosegue la cooperante, «con Avsi vuol dire stare accanto alle persone e alle comunità più vulnerabili, prenderle per mano e accompagnarle a prendersi per mano per uno sviluppo migliore delle proprie comunità».
«Fare il cooperante vuol dire veder fiorire dei semi»
Fare il cooperante, continua Maurello, «vuol dire avere la soddisfazione di vedere dei risultati. Vuol dire veder fiorire dei semi che si piantano e vedere che l’impatto di quello che si è seminato può portare ad una crescita migliore delle comunità, delle persone che si incontrano. Ho incontrato Avsi 10 anni fa, dopo la laurea in Relazioni internazionali volevo iniziare a lavorare nei progetti di sviluppo. Sono partita per Haiti la prima volta nel 2014, senza avere in mente cosa fosse la cooperazione allo sviluppo. Ci sono tanti modi di fare cooperazione», prosegue la cooperante, «con Avsi vuol dire stare accanto alle persone e alle comunità più vulnerabili, prenderle per mano e accompagnarle a prendersi per mano per uno sviluppo migliore delle proprie comunità».
Maurello spiega che, lavorando in bidonville ad Haiti e anche in Messico, molto spesso si è pensato che le persone volessero andarsene da queste comunità. «Poi, parlando con loro, quello che emerge di interessante è che le persone che vivono nei posti in cui andiamo a lavorare noi cooperanti non vorrebbero lasciare le proprie comunità: sono zone in cui sono cresciute e dove sono cresciuti i loro figli. Ma vorrebbero dei servizi di base (scuole, ospedali) nelle comunità in cui vivono. E anche posti in cui i bambini possono giocare senza essere a rischio di spaccio, di droga o di gruppi armati che li arruolano, come nel caso della capitale di Haiti Port-au-Prince, dove delle bidonville sono in mano alle bande armate».
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