Incontri
Alberto Cairo: «Il mio Afghanistan dimenticato. Ma qui ricevo molto di più di quello che do»
Il fisioterapista Alberto Cairo vive nel Paese dal 1990. Ha ridato braccia e gambe a 240mila mutilati. È stato il protagonista di uno degli incontri organizzato durante la fiera “Fa’ la cosa giusta!”. «È un Paese che mi ha fatto innamorare», racconta. «Mettere una protesi non è la parte più difficile del lavoro, reinventare la vita di qualcuno lo è. Ma ora ha la percezione che il mondo si sia stufato dell'Afghanistan»
di Anna Spena

Si è appena conclusa la ventunesima edizione di “Fa’ la cosa giusta!”, la fiera del consumo critico e degli stili di vita sostenibili quest’anno organizzata nella nuova sede di Fiera Milano Rho, a ingresso libero per tutti. Tre giorni di dialoghi, confronti e approfondimenti per far crescere la fiducia – il filo rosso di questa edizione – e costruire un mondo più giusto e una società più coesa per tutti. 52.200 visitatori, 400 relatori, 400 relatori, 300 incontri e workshop per adulti e bambini.
Tra gli incontri, moderato dalla giornalista Laura Silvia Battaglia, anche quello con il fisioterapista Alberto Cairo, 73 anni. Dal 1990 vive stabilmente in Afghanistan. Per oltre 30 anni ha guidato i centri per la riabilitazione della Croce Rossa internazionale, assistendo oltre 200mila persone con disabilità vittime della guerra. Ha contribuito a sviluppare e migliorare i servizi di riabilitazione del Paese, e a offrire percorsi di studio, lavoro e sport per molti riabilitati.
Oggi abita in un quartiere popolare di Kabul, è ancora consulente per i programmi di reinserimento sociale della Croce Rossa e continua ad assistere i pazienti anche a domicilio. È stato testimone della guerra civile del 1992, della presa del potere da parte dei talebani, dell’invasione americana del 2001 fino alla ritirata del 2021 e del ritorno al governo dei talebani. È presidente della ong Nove, Caring Humans (presente in fiera), che dal 2013 opera in Afghanistan con diversi progetti, soprattutto per le donne e per le persone con disabilità.
La scelta di vivere a Kabul «è una storia lunga», racconta. «Io sono laureato in legge e per un periodo della mia vita ho fatto l’avvocato, ma non ero contento. All’inizio la fisioterapia era un hobby, poi è diventata il mio mestiere. Volevo fare un’esperienza in Africa, solo una per capire se potevo essere utile con il mio lavoro. Sono stato due anni e mezzo a Juba, nel Sud Sudan. Mi sono innamorato del lavoro del fisioterapista in posti non facili, dove potevi fare la differenza. Una volta tornato ho contattato la Croce Rossa per iniziare a lavorare con loro, ero stato riassegnato all’Africa. Due settimane prima della partenza mi chiamano per dire “Non vai in Africa, ma in Afghanistan”. Sono partito nel 1990 e non sono più tornato».
Un Paese «che mi ha fatto innamorare. Io in Afghanistan ricevo molto di più di quello che do. Se facciamo un bilancio vinco io, non gli afghani purtroppo», dice. «Anche se ho visto e vedo ancora oggi cose bruttissime». Il lavoro di Cairo è passato attraverso tante fasi. «Quando sono arrivato nel 1990 facevo riabilitazione ai feriti di guerra, persone che avevano perso braccia e gambe. Ma io i feriti di guerra non li avevo mai visti prima. Mettere le protesi in Afghanistan non è difficile, la maggior parte delle persone che perde un arto è giovane, ha tutta la vita davanti. La strada del recupero è l’unica possibilità». Quindi per Cairo la cura non è stata la parte più complicata: «le persone tornavano, ci dicevano “grazie per la protesi, grazie per quello che avete fatto. Ma adesso che ne sarà di me?” Insomma ci chiedevano un reinserimento sociale e inclusione. Devo ripeterlo: curare non è la parte più difficile, reinventare la vita di qualcuno lo è. Mettere insieme i pezzi di anima di cuore che si sono rotti con le mine antiuomo lo è. Ridare alle persone un ruolo dignitoso in società è molto più complesso perché bisogna tener conto delle aspirazioni di quella persona, della comunità in cui vive. Ci sono mille cose che devono essere messe insieme». E quindi «la scuola, i corsi di formazione, i micro prestiti, trovare un lavoro. Per dimostrare che questa cosa era possibile abbiamo cominciato a dare lavoro e a formare solo persone con disabilità. Nei sette centri in cui lavoravo sono impiegate 850 persone, 800 hanno una disabilità. Medici, infermieri, addetti alle pulizie, guardiani. Questa cosa aiuta molto perché è un segno. Fa capire che la vita non finisce con la disabilità. L’Afghanistan poi è una barriera architettonica naturale: se non cammini, se non sei forte, la vita diventa particolarmente difficile».
In questi anni per Cairo non sono mancati i momenti di scoraggiamento: «Però ho imparato», racconta, «anche quando vedi i pazienti che continuano ad arrivare e tu non sai da che parte cominciare, a pensare “questa persona adesso non ha le gambe, ma tra un mese o due camminerà di nuovo“. Pensare in maniera positiva e trasmettere questa positività è essenziale».
Nel 2010 l’incontro con dei ragazzi che gli hanno fatto una richiesta: «che all’inizio mi sembrava fuori posto», dice. «Mi chiesero “Perché non fate qualcosa per il nostro tempo libero?”. Ecco l’Afghanistan è un Paese difficilissimo, dove manca tutto. Pensare al tempo libero mi sembrava un lusso. I ragazzi chiedevano soprattutto di partecipare ad attività sportive. Organizzammo qualche partita di calcio, ma nel calcio bisogna saper correre e molti di quei ragazzi vivevano su una sedia a rotelle. Allora qualcuno suggerì la palla a canestro. Non ero ancora convinto ma poi ho capito che lo sport è un diritto, e dopo un lungo momento di cecità sono stati gli afghani stessi a risvegliarmi e mi sono deciso ad ascoltare quello che loro dicevano, quello che loro chiedevano. Vi assicuro che anche nel settore umanitario, molto spesso, pensiamo che le nostre opinioni, le nostre idee, siano quelle giuste, e invece no. Io a volte ci definisco “colonialisti umanitari”. Comunque, per fortuna, mi sono lasciato convincere e abbiamo iniziato con la pallacanestro in carrozzina. Ho visto in quei giovani una trasformazione fisica e psicologica incredibile».
Quando i talebani hanno ripreso il controllo del Governo i fondi della cooperazione destinati al Paese sono diminuiti. «La gente pensa che i fondi vadano ai talebani, ma invece no. Vanno alle organizzazioni. Ma da qui, dal Paese, la percezione è che il mondo si sia stufato dell’Afghanistan. Questa è una fase molto triste. Ci sono così tante guerre. Ucraina, Sudan, Gaza…Chiudete gli occhi, mettete un dito sopra la carta geografica e trovate una guerra. Credo ci sia anche una stanchezza proprio dei donatori».
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