Famiglia

Albania, chi ha insabbiato le ong

A più di tre settimane dall’inizio della guerra i cooperanti sono più impegnati in riunioni e preventivi che sul campo.

di Gabriella Meroni

Come ci si sente a dover passare da una riunione all?altra, tenendo sottobraccio un plico di fogli e il cellulare incollato all?orecchio, mentre a pochi metri di distanza centinaia di profughi non hanno da mangiare? Male, risponderebbero anche i più cinici. Malissimo, rispondono i responsabili delle organizzazioni non governative italiane in Albania, quelli che da anni portano aiuti al Paese più povero d?Europa e che oggi nel bel mezzo di un?emergenza senza precedenti trascorrono più tempo davanti allo schermo del loro computer che nei campi profughi. Costretti a presentare tonnellate di progetti di carta prima di poter finalmente metterli in pratica. Sono 35 le ong italiane al lavoro nel Paese delle aquile, ma non con i profughi. Una settantina di volontari professionisti della cooperazione, con anni di esperienza, e almeno dieci volte tanti collaboratori albanesi, ancora fermi al palo, con le mani legate, a tre settimane dall?inizio della guerra. Iniziative personali sì, azioni coordinate no. La missione Arcobaleno li ha (finora) ignorati. Il ministero degli Esteri li invitati a presentare alcuni progetti (non faraonici: 100 milioni l?uno). Il ministero della Solidarietà li ha incoraggiati a fare altrettanto. E tra i cooperanti la frustrazione è tanta.
L?impotenza dell?emergenza
«Siamo in stallo, anzi, siamo fermi» constata amaramente da Tirana Simone Andreozzi dell?Avsi, una ong impegnata nel programma minori del ministero di Livia Turco. «Certo, non eravamo preparati a un esodo del genere, e poi soffriamo la povertà di questa Albania che vuole accogliere i profughi senza averne i mezzi. Ma la verità è che non siamo in grado di affrontare l?emergenza, forse non per colpa nostra». Se è vero infatti che la caratteristica della cooperazione italiana è quella di radicarsi nel territorio, con microprogetti mirati, qualcosa di più si dovrebbe riuscire a fare. «Magari con l?istituzione di figure speciali, come il disaster manager, qualcuno che in caso di emergenza sappia cosa fare subito» propone Stefano Piziali del Cesvi, organizzazione che in Macedonia è già al lavoro nei campi profughi, mentre in Albania è bloccata dalla burocrazia, dai permessi che non arrivano, e dalle riunioni. In media, due al giorno. «Il vero problema è la mancanza di coordinamento. Possibile che con tutti i tavoli che stanno gestendo questa emergenza nessuno abbia qualche indicazione operativa da darci?». Perché senza un coordinamento, le ong lo sanno bene, non si va da nessuna parte. O meglio si rischia – sono scene già viste anche in Albania in questi giorni, specie a Tirana – di veder girare tre o quattro jeep di aiuti in un campo mentre in un altro c?è chi muore di sete. Altro elemento negativo, l?immobilismo delle agenzie Onu, Acnur in testa, le cui forze in Albania fino a Pasqua ammontavano a soli tre delegati. «Se Acnur, che è un big donor, non ha ancora dettato la strategia, come pretendere da noi piani dettagliati? Rischiamo inutili sovrapposizioni» continua Stefano Piziali. «A meno che finisca come al solito: l?Acnur diventa il distributore degli aiuti americani, e buonanotte. Alla faccia dell?internazionalità dell?Onu». E poi ci sono i progetti in corso delle nostre ong, che rischiano di passare in secondo piano davanti alle nuove priorità. «Vorrei avere più personale per le nuove necessità senza toglierne a quelle vecchie, e più aiuti dall?Italia» dice Cristina Tomelleri di Dokita che gestisce l?Istituto Dermatologico Italiano di Tirana, uno dei poliambulatori più efficienti e avanzati d?Albania. «Soprattutto vorrei sapere cosa fare per poter impiegare i ragazzi italiani che generosamente vorrebbero venire qui e che devo respingere perché ora rischiano di essere un intralcio e basta».
Il gioco dei tre tavoli
In attesa di scendere in campo per davvero, cooperanti e volontari per ora si esercitano nell?uso della bussola tra le tante possibilità di finanziamento ai loro progetti che li costringono a fare le ore piccole alla scrivania. Gli aiuti umanitari italiani, infatti, giocano su tre tavoli: la missione Arcobaleno, il Ministero degli Esteri e quello della Solidarietà sociale. E in attesa di sapere come verranno impiegati i miliardi (30, al 12 aprile) di Arcobaleno, la Cooperazione italiana ha appena approvato un finanziamento di circa 530 milioni per i progetti di 8 ong (Cesvi, Arcs, Intersos, Prodocs, Cins, Cric, Cisp, Cefa) che potranno così cominciare a distribuire cibo ai profughi; le 31 organizzazioni del Coordinamento legato al ministero della Solidarietà sociale, suddivise per aree di intervento tra Minori, Donne e Disabili, stanno riunendosi per decidere come impiegare i 10 miliardi di rifinanziamento delle 93 azioni in corso, possibilmente estendendole anche ai profughi. Così la comunità di Capodarco, che a Tirana assiste già circa 200 disabili, sta «valutando» la possibilità di occuparsi di 550 rifugiati, molti dei quali invalidi senza assistenza; il Gvc sta «preparando» 12 unità mobili di sostegno alle donne profughe incinte, sole, traumatizzate dalla guerra; il tavolo minori sta «varando» l?adozione a distanza per famiglie albanesi che ospitano i kosovari e che non ce la fanno più. «Siamo in pochi, scollegati e anche imbarazzati» conclude Simone Andreozzi di Avsi. «Perché nessuno meglio di noi vede i problemi, e nessuno più di noi sente il dolore di non poter fare ancora nulla». Una speranza? I fondi della missione Arcobaleno, che – come annunciato dal commissario incaricato Marco Vitale – dovrebbero essere indirizzati verso le organizzazioni non governative in Albania. «I fondi di Arcobaleno sono di natura privata, quindi la loro erogazione dovrebbe essere immediata» ci spiega Mauro Valeri del ministero della Solidarietà. «Un ottimo canale per le ong che hanno le carte in regola».
Intanto cosa fanno
Ma cosa accade su un altro fronte caldo dei rifugiati, in Macedonia? Qui l?Italia non può vantare la tradizione di cooperazione dell?Albania (prima della guerra era presente a Skopjie una sola ong, Nuova Frontiera), eppure gli interventi sembrano essere più tempestivi. Tutte le ong presenti in Kosovo prima dei bombardamenti si sono rifugiate qui, subito si è creata una unità di emergenza all?ambasciata italiana. Così i circa 120 mila rifugiati nei campi macedoni possono contare sul lavoro del Cric, uscito dal Paese nel 1996 e ora tornato per fornire generi di prima necessità nei campi di Blace e Reduja. Ottomila profughi hanno ricevuto kit igienici da Intersos, che darà il cambio all?esercito nella gestione di un campo; il Cesvi sta distribuendo a 16 mila bambini pacchi di indumenti; l?Ics organizza attività ricreative per 1500 bambini e fornirà materassi e lenzuola a 7000 persone. Il Gvc distribuisce cibo e vestiario e organizza un supporto psicosociale per le donne; Nuova Frontiera, infine, affianca nei campi il servizio sanitario con una clinica mobile. Di tempo per le riunioni, qui, ce n?è pochissimo.

L?opinione di Franco Barberi

In Albania è importante agire tutti insieme, data la situazione gravissima. Purtroppo, però, l?Alto Commissariato per i rifugiati dell?Onu finora è stato inefficiente. Prendiamo il campo di Kukes…Noi italiani avevamo detto che avremmo montato un campo per 3200 profughi tra il 5 e il 7 aprile. Entro la stessa data, l?Acnur avrebbe voluto realizzare una tendopoli per 12000. Il 5 aprile il nostro campo era pronto, loro non hanno ancora montato una sola tenda. Il risultato? Nel campo di Kukes che poteva contenere al massimo 3200 persone adesso ne sono stipate seimila. Questo perché l?Acnur è un?agenzia di coordinamento, ma manca di supporto logistico e di struttura. Oltretutto, non fa che trasmettere appelli che invitano a inviare denaro, ma le risorse economiche sono l?ultimo dei loro problemi: hanno ricevuto 50 milioni di dollari dalle autorità americane a altri 16 milioni da quelle tedesche. Pur non avendo le stesse risorse, invece, in pochi giorni l?Italia è riuscita ad assistere oltre 27 mila profughi, grazie all?impegno dei volontari della Protezione civile e delle ong. Noi italiani abbiamo sicuramente avuto i vantaggio di trovarci in Albania già da due anni, ma ci stiamo dando veramente da fare. Il nostro è un volontariato specializzato, ma dotato anche di grandissima umanità. Quando arrivano nei nostri campi, i profughi sono in condizioni terribili e la loro prima reazione è di diffidenza. Bastano pochi minuti, qualche gesto gentile, per farli sentire a loro agio.

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