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«Al governo d’élite manca il senso comune»

di Marco Dotti

In un suo articolo pubblicato dal Corriere della Sera il 14 febbraio scorso, Giuseppe De Rita, presidente del Censis, puntava il dito su un paradosso: «Abbiamo governanti che sanno volare alto, ma non riescono a sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda dei desideri e dei pensieri collettivi che si muovono a livello della vita di tutti i giorni», era in sintesi il suo ragionamento. Un ragionamento che vale, a maggior ragione, se si guarda a come il governo Monti sta affrontando in queste ultime settimane tanti dei gangli vitali del terzo settore italiano.
De Rita, quella che lei muove è una critica molto dura, non trova?
Il governo dei tecnici, che ho chiamato la “terza élite” per distinguerla da quella che operò nell’immediato dopoguerra ? penso a Saraceno ? o negli anni 90 del secolo scorso ? penso a Carlo Azeglio Ciampi ?, ci lascia tutti soli e questo è un dato di fatto. Ma è un dato di fatto che va compreso, per non diventare una delle tante vuote critiche di parte che magari nominano il problema, ma senza coglierlo davvero. Siamo governati da un’élite che sa volare alto, perché riesce a inserirsi in complesse trattative internazionali, ma accentua la differenza tra ciò che, usando categorie risorgimentali, potremmo chiamare il “primo” e il “secondo popolo”. C’è un popolo immerso nella quotidianità e nella fatica del vivere e un altro popolo che “pensa il sentimento del primo” e ne costituisce, quindi, il legittimo sovrano. Oggi siamo nella medesima situazione, ma sono cambiati i tempi e il secondo popolo non è in grado di leggere i desideri o i pensieri del primo e, di conseguenza, lo lascia solo. Dobbiamo ripensare molte cose e accorgerci che cresce un desiderio di comunità e uno spazio comune. Insomma, o facciamo comunità o restiamo tutti soli.
Lei dove la vede ? concretamente, appunto ? questa voglia di comunità e, soprattutto, questo spazio comune in cui fare società?
Le porterò un esempio concreto. Tra il 23 e il 26 febbraio scorso, al Salone del Volontariato che si è svolto presso il Villaggio solidale di Lucca, si è percepita un’aria non dico nuova, ma diversa, direi altra. A parte alcune eccezioni, rompendo anche la mia iniziale diffidenza, osservo che l’evento lucchese si è rivelato un luogo pieno di capacità, energia, vitalità. Il meccanismo totale rivelava grande capacità, che andava oltre i discorsi correnti e ricorrenti degli ultimi dieci anni. Ho percepito e percepisco in circolo una volontà di riappropriarsi del volontariato contro o forse semplicemente oltre il terzo settore. E questo la dice lunga sulla voglia di fare comunità. Il volontariato ha inoltre una sua storia, una sua prospettiva, forze proprie, un proprio riferimento che è fatto di giovani e di capacità di dono e gratuità…
Che insegnamento traiamo da questo?
Il discorso implicito ? ma neppure troppo ? è dunque il seguente: abbiamo finora dato stura prima a un terziario sociale, poi a un terzo settore, poi a un terziario di altro tipo; alcuni volontari sono diventati dipendenti e operatori, qualche nostro leader è diventato leader politico nazionale in qualche struttura di terzo settore, adesso vadano dove vogliono, noi ricominciamo a fare volontariato. Le figure di riferimento rimangono comunque Maria Eletta Martini o altre persone ormai scomparse che erano però fuorigioco anche quando stavano in vita e operavano. Questo lo dico non per spirito di polemica, ma solo per rilevare che questo mondo è tutto un movimento composto da piccole ondate regressive, da piccole ondate in avanzamento, che hanno però un moto irregolare. È un mondo, tutto sommato, da curare.
In genere, quelli che richiedono una cura sono i malati…
Ma è un mondo comunque vivo, che per essere compreso va colto nei suoi piccoli sommovimenti. Molto spesso sono movimenti che attengono dimensioni locali. Pensiamo le iniziative di qualche sindaco leghista ? che poi sia leghista rileva ben poco, muovendosi nel solco della tradizione politica socialista o democristiana ? o a forme di mutualismo molto locale…
Non c’è il rischio che si tratti di una semplice contrazione di quelli precedenti, anziché di spazi nuovi?
Gli spazi nuovi, secondo me, sono quelli in cui un singolo cittadino si guarda intorno e si chiede: «con chi sto?», «che faccio?», «con chi parlo?». La dimensione ritorna alla sua origine più primordiale, quasi di vicinato, di capacità di stare insieme. Tutto questo riguarda anche una dimensione di desiderio riquadrata sugli spazi. Non ci sono più i grandi desideri progressisti e il vivere bene insieme diventa un valore sul quale, in qualche modo, ci tsiocca e si può costruire. Attenzione, però, non c’è in questa dimensione locale la stessa vitalità che si poteva riscontrare, vent’anni fa, negli “animal spirits” del Nord-Est. Però quella che viviamo è un tipo di realtà che permette e richiede una riflessione di questo genere.
Manca però il livello superiore e, anche questo, è segno di una ridefinizione del rapporto tra “primo” e “secondo popolo” cui abbiamo accennato all’inizio.
La cosa è ancora più complessa. Potremmo dire che ci sono i mutualisti lombardi, ma non c’è il Bazoli o il Camadini di turno. Il livello superiore manca, ma ci sono le realtà quotidiane, le forme di vita magari imborghesita ma non alto borghese. I “grandi borghesi” non ci sono più, prendiamone atto. Rimane però un senso di irrequietezza di fondo. E l’irrequietezza tipica del volontariato lo spinge oltre, non tanto contro il terzo settore. Certamente, ci sono delle rese dei conti su tanti fronti, ma questo tipo di leadership che avanza mi sembra certo più modesta, ma anche più originaria. Sono flussi più tenui, rispetto ad altre volte, ma questi flussi che fuoriescono da un mondo in frantumi ci sono e stanno facendo comunità.

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