Formazione

Aiuti, non è mai troppo presto

Inefficienze, caos, approssimazione: la macchina dei soccorsi, italiani e internazionali, è scattata in clamoroso ritardo. Una volta avviata, ha continuato a muoversi al rallentatore.

di Gabriella Meroni

Non c?era posto a sufficienza per gli aiuti ai profughi del Kosovo, sulla nave militare San Giusto in partenza dal porto di Bari. Quella sera di sabato 3 aprile si aspettava un ospite importante, il presidente del Consiglio Massimo D?Alema, e un po? di spazio utile era stato ritagliato per offrire al leader e al suo seguito (una trentina di persone, più quindici giornalisti parlamentari in tenuta da yacht party) un?accoglienza adeguata. Così tre camion della Croce Rossa, un Tir che trasporta servizi igienici da campo e un paio di jeep venivano fatti accomodare sulla nave civile ?Palladio?, già piena all?inverosimile, in rotta tra Bari e Durazzo. Senza neppure un?untà di crisi La San Giusto doveva partire alle due del pomeriggio. Ma alle sei di sera nessuno sapeva dire cosa veramente sarebbe accaduto. Al porto non esisteva una unità di crisi che coordinasse l?invio degli aiuti, e la missione Arcobaleno per il momento era solo un malinconico adesivo sopra un pick-up della Protezione Civile di Frosinone. Così ognuno, dall?ultimo finanziere al questore, diceva la sua. L?arrivo del presidente, poi, finiva con il complicare tutto, e andava a finire che la San Giusto salpava ben oltre la mezzanotte. D?altronde, l?allerta al personale della Croce Rossa (200 persone e 36 mezzi in banchina pronti a partire) era stato dato solo 24 ore prima, con destinazione non specificata. Albania, profughi, era tutto ciò che sapevano della loro meta. Volontari come Giovanni Matrafferi, da Lodi, 56 anni, meccanico in pensione, che ha dato la disponibilità per fermarsi tre mesi. La moglie quando è uscito di casa gli ha fatto la valigia dicendo: qui non ci torni più. «Ma forse scherzava», si consola lui. Eccoci dunque arrivare a Durazzo, il porto da cui l?Italia teme possa provenire un esodo incontrollato di cittadini kosovari. Per questo, recitano tutti i telegiornali (visibili anche a bordo durante la traversata), a Durazzo sono stati allestiti cinque campi di accoglienza per un totale di duemila posti. I volontari si guardano l?uno negli occhi dell?altro e sorridono: come è possibile, se i campi li dobbiamo mettere su noi? In effetti a Durazzo i cinque campi non esistono. Pare che ci sia una fattoria, o qualcosa del genere, dove ?un vecchietto? – così lo chiamano gli albanesi con cui viaggiamo sulla Palladio – ha dato ospitalità a mille kosovari. È già in piedi la primissima base della Protezione civile, da 250 tende, ma i due veri campi capaci di ospitare seimila persone ancora non esistono. E continueranno a non essere operativi per molti giorni, nonostante il lavoro di trecento volontari di Anpas, Misericordie, Agesci. L?ultima notizia è che apriranno domenica 11, ma solo se tutto andrà bene. A Durazzo, ospitati a pagamento Il resto dei 20 mila profughi arrivati fin qui, sulle coste dell?Adriatico, vive nelle case dei cittadini albanesi di Durazzo, certamente ospitali nei confronti dei loro fratelli kosovari, ma pur sempre obbligati a convivere con una situazione economica tutt?altro che allegra: così molti di loro – nonostante le descrizioni agiografiche che fanno comodo soprattutto a chi gli aiuti non li ha ancora portati – cercano quanto meno di concordare un affitto, o un ?rimborso?, che venga pagato dagli stessi profughi. A Tirana invece, la capitale dalle strade polverose su cui trottano mille carretti a cavallo, è il trionfo dello statalismo e dell?organizzazione elementare ma miope del governo. I due centri allestiti in altrettante strutture sportive – il Palasport e le piscine olimpioniche – a loro modo funzionano. Ma con la parola d?ordine: un giorno è poco e due sono troppi. Dopo quarantott?ore il profugo se ne deve andare da questa immensa palestra scrostata i cui muri sono ancora tappezzati di una vecchia, ma oggi agghiacciante campagna sociale: un cuore, tatuato della doppia aquila albanese sanguina, e la scritta dice: date il vostro sangue, salverete una vita. Il governo sembra avere una gran fretta di chiudere il problema senza dare troppo nell?occhio; cosa ne sia di queste persone quando se ne andranno, non lo sa nessuno. L?importante è che tutti vedano i soldati distribuire i filoni di pane in cassetta, comprato dal governo con i finanziamenti dell?Alto commissariato Onu per i rifugiati (Acnur, o Unhcr), e che bambini rifugiati si accalchino per prenderlo. Sono i bambini a chiedere di più, e anche a ricevere. Un padre di famiglia kosovaro, stretto nella sua giacca scura e magari con in testa il pliss, il berretto di lana bianca a forma di cono, non lo accetterebbe mai. Ed è capace di non mangiare per giorni, finché non abbia portato al sicuro i suoi, oltre confine. Quel confine che a Morini, valico kosovaro-albanese, è diventato l?incarnazione di tutte le speranze tradite. Di qui, martedì 6 aprile ancora passavano tremila persone all?ora. E ad attenderle in Albania, dove gli uomini arrivano con gli occhi bassi e le donne con la testa ancora girata all?indietro, alla terra lasciata, c?è un solo camion del governo con il solito pane e due pullmini di ong danesi e tedesche che distribuiscono biscotti energetici e latte. Finiti quelli, torna in auge la pagnottona. Intanto i trattori, i carri, perfino i tagliaerbe con rimorchio carico di disperati si riversano a Kukes, a mezz?ora di auto dalla frontiera, e trovano altri profughi come loro, ammassati dappertutto: finite le aree verdi, si siedono nelle aiuole, sui marciapiedi, sulle scalinate dei palazzi, nei cortili. Mitra, pianti e risate a Kukes A Kukes, che un tempo aveva solo cinquemila abitanti, non si può camminare senza sollevare il piede ogni due o tre passi per non pestare le povere cose di una famiglia. Un altoparlante ogni tanto grida il nome di qualcuno, c?è un parente che lo cerca. Qualcun altro cerca un telefono, ma è inutile perché a Kukes non si può telefonare né ricevere, se non col satellitare. Bande di paramilitari girano ovunque con i mitra in mano, i pianti dei bambini si mescolano alle risate dei soldati e alle dirette delle tv di mezzo mondo, la confusione sembra pensata, costruita a tavolino, tanto è perfetta. Perché a Kukes non esiste nessun punto di riferimento visibile per i rifugiati. Un intero, sterminato campo beve solo grazie alla fortuna di avere una sorgiva spontanea nel mezzo. Le autobotti dei vigili del fuoco italiani fanno su e giù dal confine, e al ritorno dai finestrini si vedono omoni grandi e grossi piangere come bambine. Ma sono solo quattro. Il ponte aereo con cui gli elicotteri della Marina italiana e francese portano aiuti alimentari, medicine e acqua è partito solo lunedì 5. E solo il 6 aprile il convoglio della San Giusto, con tutto l?ospedale da campo della Croce Rossa militare, è arrivato a Kukes: dopo undici giorni dalla prima bomba sulla Serbia, due giorni di inghippi burocratici e ventiquattr?ore di viaggio. Esattamente lo stesso tempo che a qualcuno è servito a svuotare un intero Paese del suo popolo.


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