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Aiuti allo sviluppo: il target dello 0,7% rimane un miraggio per l’UE

Ieri i ministri UE dello sviluppo si sono riuniti a Bruxelles per adottare una posizione comune sull’agenda post-2015 in vista della Conferenza sui finanziamenti per lo sviluppo prevista a luglio. Tutti d’accordo per mantenere l’impegno dello 0,7%, ma senza indicare date di riferimento per raggiungerlo e vincolandolo “alle restrizioni budgetarie”.

di Joshua Massarenti

Ieri i ministri dello sviluppo dei 28 Stati membri dell’UE si sono riuniti a Bruxelles per adottare una posizione comune sugli Obiettivi di sviluppo sostenibile (2015-30) che a fine anno andranno a sostituire gli Obiettivi del Millennio (2000-15). Nel menù delle discussioni, il piattoforte riguardava la volontà o meno di mantenere l’impegno di riservare lo 0,7% del reddito nazionale lordo di ogni Stato membro europeo agli aiuti per lo sviluppo dei paesi poveri.

La conferma è arrivata in serata, prima con un tweet del viceministro degli Esteri con delega alla cooperazione allo sviluppo, Lapo Pistelli – “L’Europa riconferma l’impegno collettivo di destinare lo 0,7% del PIL agli APS nell’ambito dell’agenda post-2015” – e poi attraverso le “conclusioni” diffuse in tarda serata dal servizio stampa del Consiglio europeo.

Qualche anticipazioni sulle decisioni di fondo che i ministri dello sviluppo UE hanno in realtà preso le aveva date lo stesso Pistelli durante una pausa del Consiglio. “Le discussioni sono tese perché non tutti sono d’accordo su quando raggiungere l’obiettivo dello 0,7%”. Eccessivi sono infatti i divari tra chi, come i paesi scandinavi, hanno già superato questa soglia nell’era degli MDGs (Obiettivi del Millennio) e continueranno a farlo dopo il 2015, chi come la Germania e il Regno Unito si stanno avvicindando, e poi gli altri, compresi gli ultimi in classifica come l’Italia (ferma allo 0,17%) o la Grecia. E questi divari rimarranno probabilmente tali nell’era degli SGDs. Soprattutto, le conclusioni confermano quanto la società civile temeva: l’UE “riconferma l’impegno collettivo di raggiungere lo 0.7% del PIL nel corso dell’agenda post-2015”, quindi nel periodo 2015-2030, senza indicare l’anno in cui questo target verrà raggiunto dall’insieme degli Stati membri europei.

“E’ un periodo troppo lungo per sperare di avere un impatto serio sull’attuazione degli SDGs”, ha dichiarato il portavoce della piattaforma delle ONG europee (CONCORD Europe), Seamus Jeffreson. “Il 2020 come anno di riferimento sarebbe stato più appropriato”. Ma le sorprese non finiscono qui. Sempre nelle conclusioni, si legge che gli Stati membri che hanno aderito all’Unione europea prima del 2002 si impegnano sullo 0,7% “tenendo in considerazione le restrizioni budgetarie” dei conti pubblici. In altre parole, l’impegno non è vincolante. E non lo è nemmeno per quei paesi entrati nell’UE dopo il 2002 (cioè quelli dell’Est), la cui soglia è stata fissata allo 0,33%. Invece, l’UE intende “aumentare i finanziamenti destinati all’Africa” e riservare un’attenzione particolare “ai paesi meno sviluppati riservando collettivamente lo 0,15-0,20% del PIL in tempi brevi”. Quando per l’esattezza, nessuno lo sa.

Per Jeffreson, “la credibilità dell’UE come attore globale dello sviluppo è intaccata”. In vista della Conferenza sui finanziamenti dello sviluppo nell’agenda post-2015 che si terrà a luglio in Etiopia, non è un buon segno.

Non solo aiuti pubblici

Ma l’Unione Europea, che rimane il più grande donatore al mondo con oltre la metà degli APS globali erogati nel Sud del mondo, non vuole farsi impressionare. Secondo Bruxelles, le responsabilità vanno condivise. Non a caso, nelle conclusioni del Consiglio si legge che “l’UE e gli Stati membri chiedono ai paesi emergenti e quelli a reddito medio-alto (UMICs) di aumentare i loro aiuti finanziari verso i paesi in via di sviluppo”. Inoltre, la lotta alla povertà non può essere ridotta ad un unico strumento finanziario: i fondi pubblici. Basti pensare al potenziale immenso delle rimesse dei migranti. Come ha ricordato Il viceministro Pistelli, “lo scorso anno il valore degli aiuti allo sviluppo è stato di 140 miliardi di dollari, mentre il valore delle rimesse è stato di 450 miliardi di dollari”. Una cifra che non è sfuggita all’attenzione dei ministri che ieri hanno dibattuto anche i legami tra migrazioni e sviluppo. Tema importante, sollecitato dall'Italia sotto la cui presidenza di turno “per la prima volta sono state approvate conclusioni in cui le migrazioni – ha fatto osservare Pistelli – non sono state valutate solo come fattore umanitario o securitario ma anche come fattore di sviluppo”.

Sempre sulle migrazioni, il viceministro degli Esteri ha ricordato “il successo registrato dal governo italiano con il Processo di Khartum lanciato nel novembre scorso e che oggi raccoglie il consenso dell’insieme degli Stati membri, anche grazie all’appoggio della Germania”. Siglato a Roma durante una conferenza ministeriale tra i rappresentanti degli Stati membri dell’Unione Europea, dei paesi del Corno d’Africa (Eritrea, Somalia, Etiopia e Gibuti) e di alcuni paesi di transito (Sud Sudan, Sudan, Tunisia, Kenya ed Egitto), il processo di Khartoum prevede una collaborazione tra paesi partecipanti per combattere il traffico di esseri umani, intervenire sui fattori scatenanti dell’emigrazione, cercar di garantire dei percorsi più strutturati per chi emigra, tutelando le fasce più vulnerabili e i richiedenti asilo. “Ad aprile, sono stati firmati accordi per finanziamenti pari a 24 milioni di euro destinati a progetti piloti, sei volte tanto quello che era stato concordato in novembre”, ha sottolineato Pistelli.

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