Fa sempre un certo effetto, ma a ben pensarci non è una novità. Il fatto che airbnb punti sul valore dell'esperienza, anche di natura sociale, per incrementare il valore del suo core-business (affitti temporanei in nero come sintetizza qualcuno, ironicamente ma non troppo) fa parte di un filone ormai ricco di casi in cui l'economia tradizionale, in particolare quella che viaggia sulle piattaforme digitali, si specializza nel mettere a valore non solo risorse materiali sottoutilizzate come l'auto o la casa (quella che l'economista Becchis propone di chiamare "sleeping asset economy" invece di sharing economy), ma un più ampio spettro di relazioni che prendono forma negli incontri tra persone che queste stesse infrastrutture rendono possibili. E così Airbnb esperienze impacchetta contesti dove la qualità relazionale fa la differenza: cultura, sport, intrattenimento e naturalmente attivismo sociale. L'on demand economy fa un salto di qualità rispetto a imprese tradizionali che vedevano il sociale solo da angolature molto specifiche come le scelte di consumo, le relazioni sindacali e un po' di responsabilità sociale. Ma c'è di più: Airbnb (e gli altri signori delle piattaforme) sfida anche imprese sociali come Le Mat e startup sociali come i mitici di Destinazione Umana sul loro terreno.
A questo punto il gioco consiste nello scoprire le differenze, in termini di qualità, delle proposta, sapendo bene che i segnali tradizionali come l'assenza di scopo di lucro, il fatto di operare in settori definiti per legge come "sociali" e perfino un assetto di governance che massimizza l'interesse di una pluralità di soggetti e non solo quello dei grandi azionisti o del top management da soli non funzionano, almeno non come nel passato recente. Quel che davvero fa – e farà – la differenza è l'impatto sociale dell'iniziativa, ovvero il modo in cui saprà creare benefici ad ampio raggio e, così facendo, contribuire ad alterare lo status quo dei modelli di servizio e dei sistemi di regolazione. L'enfasi sul carattere esperienziale del turismo è lì a dircelo con molta chiarezza rompendo il monopolio di villaggi turistici, seconde case, hotel. Ma esempi dello stesso tipo sono visibili guardando ai modelli di consumo agli stili di vita e così via. Prima però di scapicollarsi su modelli, dimensioni e metriche dell'impatto sociale occorre focalizzare l'obiettivo in termini di domanda di cambiamento. E' la magnitudine del bisogno a stabilire "l'obiettivo dato" rispetto al quale misurare "in senso qualitativo e quantitativo" e "nel breve medio e lungo periodo" quello che sarà "l'impatto sulla comunità". Parole del legislatore in materia di terzo settore e impresa sociale. La certificazione normativa che ormai siamo nell'era dell'impatto.
L'importanza di focalizzare la sfida rispetto alla quale misurare l'impatto dell'innovazione sociale emerge evidente alla Biennale architettura di Venezia che si sta per concludere. In particolare il tema delle migrazioni fa da cornice a molti padiglioni e installazioni, come ad esempio quello proposto da BEL Architechten che con due semplici infografiche rende benissimo l'idea. Da una parte "Konisberger Strasse": 12 milioni di migranti che alla fine della seconda guerra passarono per il corridio dei territori dell'est verso la nuova Germania Federale accolti grazie a un grande piano di edilizia e di welfare pubblico. Dall'altra il nuovo "Aleppoer Weg", il corridoio di Aleppo lungo il quale arriveranno, secondo i curatori, lo stesso numero di persone da qui al 2016. E come verranno accolte? Attraverso iniziative di autocostruzione e di codesing delle architetture e degli spazi urbani coinvolgendo comunità locali e comunità dei flussi migratori. Una vera e propria prova del nove per la rigenerazione urbana chiamata a passare da sperimentazione localizzata a modello di sviluppo per reggere l'impatto di trasformazioni epocali. Così funziona, altrimenti rimarremo con un pugno di buone pratiche ben raccontate e rendicontate, ma non nel senso dell'impatto. Sensazione, quest'ultima, che si respira visitando il padiglione Italia alla stessa biennale che promette bene rispetto al tema – taking care: progettare per il bene comune – e dove abbondano le micro esperienze di rigenerazione, ma dove si fa fatica a cogliere l'entita del cambiamento che queste iniziative sono in grado di attivare in chiave sistemica. Non è un dettaglio: perché da qui passa la differenza tra pratiche e politiche d'impatto.
Cosa fa VITA?
Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è grazie a chi decide di sostenerci.