Cultura

Ai Patti educativi territoriali adesso serve una visione

La regione che ne ha di più è la Sardegna, quasi cento. Sembravano la grande promessa, ma finora sono stati interpretati più che altro in ottica "emergenziale", concentrati più sugli spazi che su una nuova visione della scuola, che chiama in causa tutto il territorio. C'è già parla di "greenwashing educativo" e chi ne chiede l'obbligatorietà. Dei Patti educativi territoriali si sa ancora poco, a cominciare da quanti siano. Abbiamo raccolto i primi 530, in collaborazione con il gruppo di ricerca sulle Piccole Scuole di Indire

di Sara De Carli

Con il Piano Scuola 2020/21 nei documenti ministeriali sono comparsi i Patti educativi territoriali e con l’articolo 32 del DL 104/2020 il loro finanziamento. Da anni in verità si parla di scuola aperta, patti di collaborazione, comunità educanti, patti educativi di comunità… esperienze differenti ma accomunate dalla consapevolezza che dinanzi alle sfide multifattoriali di oggi la scuola da sola non ce la fa: ci vuole la comunità intera. Sussidiarietà e corresponsabilità diventano l’orizzonte per un nuovo modello di scuola e i Patti il frame per considerare l’educazione informale e non formale come elemento strategico per ripensare il curricolo e innovare l’esperienza di insegnamento e di apprendimento. Abbiamo dedicato alla scuola la copertina del numero di settembre di VITA, rivolgendole un accorato “ultimo appello” perché essa abbia il coraggio di cambiare e non tornare semplicemente alla scuola “di prima”. E abbiamo indicato i patti educativi di comunità come la prima delle sette sfide che la nuova scuola, per essere tale, deve vincere.

1/ Che cosa sono

In realtà dei patti educativi territoriali si parla molto ma si sa pochissimo. Ci sono esperienze straordinarie come quella dell’IC di Vo’ Euganeo e quella della scuola diffusa che il Comune di Reggio Emilia ha confermato anche per quest’anno scolastico (le raccontiamo entrambe sul magazine e la seconda è seguita dal gruppo di ricerca di Indire come modello da proporre anche nelle realtà più piccole e isolate del paese) ma la gran parte dei Patti siglati in quest’anno di pandemia sembrano finalizzati prevalentemente ad avere più spazi per gestire il distanziamento (fossero anche in prestigiosi musei) o più persone per sorvegliare l’entrata degli alunni (vedi i volontari delle associazioni del territorio). Più associazioni temporanee di scopo che comunità che condividono un progetto educativo. Gli attori poi – scuola, ente locale e Terzo settore – ancora non si guardano come pari. È vero, una comunità educante non si fa sulla carta e ha costitutivamente bisogno di tempo, ma qualcuno parla già di “greenwashing educativo”, con parole d’ordine interessanti e poca sostanza. Ma questo strumento ha una potenzialità strategica e che quando avrà raggiunto la sua maturità sarà un punto di non ritorno. Questo però è il momento di fare un salto di qualità e di andare verso una messa a sistema, senza scivolare nella standardizzazione. Ecco il perché di questo viaggio.

2/ I numeri

Quanti siano i Patti educativi territoriali già firmati non si sa. Indire e Labsus hanno da poco siglato un protocollo d’intesa per un Osservatorio nazionale sui Patti educativi territoriali, che ha proprio l’obiettivo tracciare una prima geografia di attori ed esperienze, analizzarli e individuare gli elementi portanti che sarebbe bene avere perché un Patto educativo territoriale sia capace di promuovere risorse e progettualità in un contesto collaborativo, così che la Scuola, oltre che un servizio pubblico, diventi un bene comune. Delle future “linee guida”, anche. Il gruppo di ricerca di Indire sulle Piccole Scuole ci ha supportato in questo approfondimento, chiedendo agli Uffici Scolastici Regionali quanti fossero i Patti educativi siglati dalle piccole scuole del loro territorio e finanziati con fondi ministeriali e quanti altri fossero invece sostenuti dal territorio. Nelle dodici regioni che hanno comunicato questi dati al gruppo di ricerca di Indire, ecco che arriviamo a conoscenza di 459 Patti territoriali finanziati con fondi ministeriali e gestiti dagli USR più 71 Patti educativi/Patti di collaborazione delle Piccole Scuole col territorio. Qui sotto i grafici che ne mostrano la distribuzione sul territorio nazionale.

La Sardegna con quasi un centinaio di Patti si colloca in prima posizione, seguita da Piemonte, Puglia e Toscana. In Veneto invece i Patti finanziati dal territorio sono più numerosi di quelli finanziati dal Ministero. Scorrendo i titoli e i contenuti dei Patti, si trova molta “gestione in sicurezza della didattica in presenza/rientro in sicurezza degli alunni” ma a onore del vero la maggioranza parla di ampliamento dell’offerta formativa, natura, sport, orientamento efficace, laboratori nei musei o nelle botteghe artigianali, valorizzazione del territorio. Un affresco bellissimo di una scuola possibile.

3/Primo, la visione di scuola

Nell’ambito del percorso “Idee e pratiche di scuola di prossimità” portato avanti insieme alla Fondazione Amiotti, il gruppo di ricerca di Indire sulle Piccole Scuole ha raccolto e analizzato 130 Patti condivisi dalle scuole di tutto il territorio nazionale. Questa analisi è il primo passo per rilevare la “fisionomia” del Patto come strumento che permette alla scuola di andare oltre quell’accordo di collaborazione che la legge sull’autonomia scolastica già prevedeva vent’anni fa, appoggiandosi all’articolo 118 della Costituzione. «Il passaggio nuovo è che ora si rafforza il rapporto fra scuola e territorio, per cui il Patto non è solo uno strumento operativo, ma una visione di scuola», afferma Giuseppina Cannella, primo ricercatore di Indire. Quindi se il patto di collaborazione si sostanzia in un regolamento per l’uso di uno spazio, il nuovo Patto educativo territoriale è un «accordo di visione educativa, non tanto normativo. Presuppone una visione più ampia, entro cui il territorio offre alla scuola una proposta per ampliarne l’offerta formativa. Il patto dà gambe a qualcosa che la scuola poteva già fare, con maggiore agilità e soprattutto con fondi che ne garantiscono la sostenibilità». Il Patto in sostanza deve essere ben collegato agli obiettivi formativi che la scuola vuole raggiungere (al curricolo) e le associazioni sul territorio sono coinvolte proprio a partire da quegli obiettivi: «Il Patto ha bisogno di una visione alle spalle, altrimenti è extra-scuola», sottolinea Cannella. «La promessa dei Patti non è disattesa, è che ci vuole tempo. Può essere uno strumento per una nuova scuola ma come sempre accade nella scuola non si può assolutizzare un singolo pezzetto: a monte ci deve essere un’idea educativa di scuola, poi di strumenti funzionali all’obiettivo ce ne sono molti. Dare al solo patto questa missione è eccessivo».

4/La scuola come learning hub

Il contesto pandemico e post pandemico ha spinto alla responsabilizzazione delle comunità rispetto all’educazione, con forme partecipative estese. «Il tema delle alleanze, in educazione, rientra nella “pedagogia della riconciliazione”. Le alleanze portano a definire un piano territoriale dell’offerta formativa, in cui musei, biblioteche, Terzo settore… si fanno partner della scuola nel rivedere il curriculum della scuola, valorizzando il bene locale o il capitale sociale del territorio, tanto che Stefano Versari (capo dipartimento del Ministero dell’Istruzione, ndr) dice sempre che il Patto Educativo è lo strumento con cui tutto il territorio si mette al servizio della scuola, per arrivare dove la scuola da sola non ce la fa», spiega Giuseppina Rita Jose Mangione, Responsabile della Ricerca sulle Piccole Scuole di Indire. «È l’immagine di una scuola di prossimità, che responsabilizza tutta la comunità, di scuola come sistema formativo allargato». Il Patto educativo territoriale, così, incarna uno dei quattro scenari che l’OCSE a fine 2020 ha individuato per la scuola del futuro: «quello della scuola come learning hub, cioè un sistema formativo integrato e ampio. Ma il learning hub è tale solo se è luogo di partecipazione per tutta la cittadinanza, con la scuola che diventa centro civico, motore di cultura e di educazione per tutta la comunità».

5/Anatomia di un Patto Educativo di Comunità

L’alleanza tra scuola e territorio e la comunità educante sono temi cari alla riflessione pedagogica fin dagli anni ‘60 e ‘70. La pandemia ha dato una accelerazione a questa dinamica e il Patto Educativo di Comunità è stato uno strumento facilitante per siglare accordi: sono stati messi a disposizione i cosiddetti “terzi spazi”, ossia ambienti di apprendimento dentro musei, fattorie didattiche, parchi… utilizzati per lo svolgimento delle attività didattiche, in orario curricolare. Il territorio però può mettere a disposizione anche strumenti e professionalità per ampliare l’offerta educativa e raccordare l’educazione formale, non formale e informale. L’analisi condotta da Indire ha permesso di individuare sette principali “nuclei di significato” attorno a cui ad oggi si articolano i patti esistenti. Stefania Chipa, ricercatrice di Indire, li sintetizza in questo modo:

  1. Il patto è strumento abilitante di una nuova normalità, attenta agli studenti più fragili perché ampliando lo spettro delle offerte formative si creano nuove possibilità per una didattica attiva e collaborativa che valorizza meglio le caratteristiche diverse degli alunni e accoglie meglio le fragilità.
  2. Il patto intervenendo sulla povertà educativa è uno strumento contro la dispersione scolastica. Mettendo a disposizione ambienti nei territori con spazi attrezzati ha consentito a tutti gli studenti di andare a scuola o di frequentare la DaD in spazi tranquilli, dotati di computer e connessioni.
  3. Il patto sembra uno strumento-guida per un nuovo modello educativo e rinsaldando l’alleanza tra scuola e territorio, va verso lo scenario del learning hub indicato dall’OCSE, cioè di un ambiente di apprendimento integrato fra scuola e territorio (cfr OECD, Back to the Future of Education: Four OECD Scenarios for Schooling, Educational Research and Innovation).
  4. Bisogna che il patto sia “figlio” di una strategia di medio-lungo termine. Occorre tempo non solo per costruire l’alleanza ma anche per individuare i dispositivi didattici, perché il modello del Patto porta a riorganizzare spazi, orari e a lavorare molto per progetti e per competenze.
  5. Il patto, in particolare per le Piccole Scuole, permette di rispondere a necessità specifiche: il territorio è solidale e a bisogni specifici risponde con risposte specifiche.
  6. Si avverte una necessità di messa a sistema: le scuole si stanno attrezzando per creare occasioni per coinvolgere i comuni vicini, in un sistema integrato. La diffusione dei Patti ha reso evidente che non si può più fare a meno di lavorare in modo stretto con il territorio.
  7. Si avverte la necessità di investire sulla sistematizzazione delle buone pratiche, sul rendere visibile l’innovazione non per estrarre un modello riproducibile ovunque ma per individuare gli elementi significativi, comprendere le funzioni e renderli disponibili ad altre realtà.

6/I Patti e i territori più fragili

Visione educativa della scuola; tipo di governance; attori; attività: Indire sta analizzando i patti lungo questi quattro assi. «Quanto alla visione, abbiamo trovato visioni molti differenti», racconta ancora Mangione. Ci sono «scuole che hanno deciso di investire sull’empowerment individuale, sulla povertà educativa, sulla sussidiarietà oppure sulla dimensione ecologica. La visione educativa deve essere forte e chiara, perché è l’idea attorno a cui il capitale sociale del territorio si mette a disposizione della scuola», sottolinea. Pure le governance molto diverse: «Sono nati community hub o tavoli territoriali, dipende dal livello di committment. Collegati ai Patti abbiamo visto nascere Centri di servizi di welfare, di servizi di inclusione lavorativa, di doposcuola, di assistenza psicologica alle famiglie». Ovviamente le attività sono lo specchio della visione che sta alla base del Patto: «Territori con l’obiettivo del contrasto alla povertà educativa hanno introdotto le doti educative di comunità, con servizio di doposcuola e di orientamento, con attività laboratoriali rivolte ai più fragili in orario curricolare, con sportelli di sostegno allo studio, azioni di contrasto del digital divide… Ci sono scuole che hanno messo spazi e laboratori a disposizione della comunità, biblioteche scolastiche che hanno accolto la formazione degli adulti». L’Osservatorio nazionale sui Patti educativi territoriali appena avviato da Indire e Labsus punta a «diffondere queste azioni e far emergere le opportunità che questi patti danno nell’andare oltre il modello dominante e favorire nuovi modelli di scuola. I Patti sono interessanti per la scuola tout court», evidenzia Mangione, «ma nei territori più fragili potrebbero davvero diventare il dispositivo alla base di una nuova scuola, con una offerta formativa competitiva anche per riportare le famiglie nei territori».

7/Oltre l’emergenza

Pasquale Bonasora è consigliere nazionale di Labsus-Laboratorio per la sussidiarietà. Da anni lavorano sui patti di collaborazione e sui Regolamenti per l’Amministrazione condivisa dei beni comuni. Per lo sviluppo futuro dei Patti come strumento di innovazione, lui vede due leve. La prima riguarda la governance: «Il Piano Scuola 2020/21 parlando dei Patti Educativi territoriali fa riferimento a uno strumento tradizionale della Pubblica Amministrazione, che è la Conferenza di Servizio, che ha le sue funzionalità tipiche. A nostro avviso l’applicazione del principio di sussidiarietà deve lavorare su principi diversi da quello dell’esercizio dell’autorità, che sono la fiducia, la condivisione della responsabilità, il poter definire insieme che cos’è l’interesse generale: occorre guardare di più a strumenti come la coprogettazione, se vogliamo davvero dare forza ai Patti», dice Bonasora. Dei segnali in questa direzione ci sono già stati, «per esempio la regione Emilia Romagna attraverso l’USR ha inviato delle line guida regionali agli istituti, in cui ha adottato la struttura del nostro patto di collaborazione per i patti di comunità. La differenza è che utilizzando lo schema dei patti di collaborazione per la definizione dei patti di comunità, invece che l’aspetto formale prevale l’ambito della coprogettazione in cui vengono coinvolti, proprio nello spirito della sussidiarietà orizzontale, tutti i soggetti attivi nella comunità, con lo stesso potere».

La seconda questione è legata agli obiettivi che ad oggi sono previsti per i Patti: «Nel Piano Scuola si parla in maniera esplicita di aspetti legati agli spazi e all’organizzazione, che erano gli spetti emergenziali della pandemia. Questo però nello scorso anno ha avuto l’effetto di limitare l’efficacia dei patti, si è tralasciato un altro elemento di cui in verità si parla nel Piano e che è cruciale: l’aspetto pedagogico e didattico, la costruzione della comunità, oltre l’aspetto emergenziale. Questo è un punto decisivo per dare sostanza nel corso del prossimo anno ai patti, per vedere in quale direzione andare», afferma Bonasora. I bandi del Ministero dell’Istruzione, per esempio, dovrebbero «definire obiettivi che guardino a questo aspetto didattico dei Patti più che agli spazi e alle strutture. Questo, senza bisogno di rendere vincolante il percorso dei Patti, farebbe fare un salto di qualità enorme ai Patti stessi». Solo così «si genera un cambiamento culturale della governance dell'educazione».

In copertina, la Scuola Diffusa del Comune di Reggio Emilia. Tutte le esperienze sono raccontate sul numero di VITA di settembre.

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