Giustizia riparativa

Agnese Moro: «Vi spiego la mia amicizia con l’ex brigatista Franco Bonisoli»

In un toccante incontro promosso alla comunità "Il Samaritano" di Arborea in Sardegna, la figlia di Aldo Moro e l'ex terrorista hanno parlato degli anni di piombo e di un sistema giudiziario che va modificato. «Perché non è vero che la detenzione ristora le vittime e i loro familiari». Ma lo Stato non investe risorse sufficienti

di Luigi Alfonso

Perdonare significa accettare, non necessariamente assolvere coloro che ci hanno fatto del male, più o meno direttamente. Accettare per non farsi travolgere dal dolore, per dare un senso alle cose. Per guardare avanti e ricominciare a vivere. Attraverso questo percorso è passata Agnese Moro, figlia del grande statista Aldo Moro assassinato dalle Brigate Rosse nel 1978, esattamente 55 giorni dopo il suo rapimento e l’uccisione dell’intera scorta. Lei non dimentica, certamente, ma è riuscita ad andare avanti e perdonare i terroristi, a cominciare dal brigatista Franco Bonisoli che fece parte del gruppo armato di via Fani. Con lui si è confrontata sabato scorso al Festival Propagazioni, organizzato da Heuristic Associazione culturale.

Un momento dell’incontro che si è tenuto ad Arborea

La comunità “Il Samaritano” di Arborea (Oristano) è stata il luogo naturale per un evento ad altissimi contenuti emotivi, in quanto questa realtà si è occupata per oltre vent’anni dell’inserimento socioeducativo di circa tremila persone in percorso di pena alternativa. In un dialogo coordinato da Pino Tilocca (ex sindaco di Burgos, il cui padre fu ucciso da ignoti nel 2004 con una bomba collocata sull’uscio di casa) e accompagnati dal reading di Elio Turno Arthemalle (testi tratti dal libro “Il libro dell’incontro – Vittime e responsabili della lotta armata a confronto”, 2015, edizioni Il Saggiatore), la figlia del leader della Democrazia Cristiana che aveva tentato la via del compromesso storico con il Pci di Enrico Berlinguer, ha parlato di alcuni temi di grande attualità, a cominciare dalla giustizia riparativa e del necessario percorso di riconciliazione.

«Il 70 per cento delle persone che passa per la nostra comunità non cade nella possibile recidiva», ha sottolineato Antonello Caria, presidente della cooperativa sociale Il Samaritano, rimarcando l’importanza di queste strutture. «Questo è un luogo di riconciliazione sociale, che consente ai detenuti a fine pena di reinserirsi nella società civile». Una realtà che, tuttavia, va a cozzare con le poche risorse (7 milioni di euro, quando alla sola Sardegna occorrono 3 milioni per consentire alle comunità di questo settore di andare avanti). La riforma Cartabia, insomma, non viene sostenuta adeguatamente dallo Stato.

Antonello Caria, presidente della cooperativa sociale Il Samaritano

«Giustizia riparativa è un termine abbastanza ambizioso», ha esordito Agnese Moro. «Qui abbiamo a che fare con qualcosa di irreparabile: vale per me e la mia famiglia, vale anche per Franco Bonisoli. La morte delle persone non si può riparare. Mio padre non può ritornare. Franco non può tornare agli istanti che hanno preceduto gli spari di quei colpi. L’irreparabile è entrato nelle nostre vite e le ha cambiate completamente, lasciando dietro di sé delle scorie radioattive. Ecco, queste sì che possono essere riparate. Per me si chiamano silenzio, solitudine, impossibilità di raccontare e condividere quello che è successo, il non desiderio di farlo perché non vuoi passare quell’orrore ad altre generazioni, la convinzione che nessuno ti capirà e potrà accettare quel peso. Viene il torcicollo, perché la testa è sempre rivolta indietro, anche se vai avanti. Il passato domina la tua vita e non passa mai. Riconciliarsi è un modo per esorcizzare i fantasmi che agitano la tua vita: Franco è stato uno di essi, per tantissimo tempo. Mi ha fatto male vedere l’indifferenza nei nostri confronti da parte sua e degli altri brigatisti, quando erano rinchiusi nelle gabbie al processo. Ma quando al fantasma si sostituisce il viso di una persona concreta, cambia tutto. Per me è un mistero la sua scelta di avermi voluto incontrare anni fa: ha scontato la sua pena, non mi doveva niente. Non deve niente a nessuno. Io sono un rimprovero vivente, eppure ha preso un treno da Milano a Roma per incontrarmi».

Agnese Moro nel suo toccante intervento alla comunità Il Samaritano

«La giustizia riparativa è vedere l’altro, ascoltare l’altro», ha proseguito Moro. «Poter parlare con lui mi ha consentito di rimettere a posto le cose. Perché i fantasmi li puoi odiare anche per tutta la vita, le persone no. Il rancore nei suoi confronti è svanito nel giro di pochi secondi, perché di fronte mi sono ritrovata una persona che soffre per ciò che ha fatto ma che non può cambiare nulla perché è irreparabile. Passa anche il torcicollo perché smetti di guardare indietro».

Bonisoli, a suo tempo condannato a quattro ergastoli (per complessivi 105 anni di pena), ha scontato 22 anni di detenzione, in buona parte in regime di massima sicurezza. «Ho pagato la pena retributiva secondo le leggi dello Stato», ha commentato durante l’incontro. «Ma mi sono detto: ho pagato tutto, ma a chi? Dietro c’è la tua coscienza e qualcosa di molto più profondo della giustizia. Ecco come è nato il desiderio di avviare un dialogo di comprensione umana con quelle persone alle quali avevo fatto dei danni irreparabili, sperando che ciò potesse alleviare almeno la loro sofferenza. Tutte le ragioni che mi avevano spinto giovanissimo a fare la lotta armata, cioè di costruire attraverso la violenza un mondo migliore, di pace, contro lo sfruttamento, non mi sono bastate più. Ho continuato a militare nell’organizzazione delle Br anche in prigione, ma proprio in Sardegna, nel carcere di Nuoro, è cambiata la mia vita. Qui ho rotto col passato e avviato un percorso lungo, che finalmente è sfociato anche in questi incontri con Agnese».

Franco Bonisoli visibilmente commosso durante l’incontro con Agnese Moro

Bonisoli è scoppiato in lacrime, nel raccontare un episodio accaduto alcuni giorni fa al suo arrivo nell’Isola. «Appena sbarcato dalla nave, mi sono recato alla spiaggia di Stintino, posta di fronte all’isoletta dell’Asinara dove c’è il carcere di massima sicurezza in cui sono stato detenuto parecchi anni. È stato un periodo durissimo, non era scontato uscirne vivi perché i sistemi adottati erano disumani. E più il carcere era duro e più mi faceva diventare duro. Quando penso a ciò che ha riferito Agnese, cioè alla nostra indifferenza di fronte ai parenti delle vittime, provo vergogna. Perché è vero che la violenza inaudita del carcere alimenta la durezza, la strafottenza, e nega la possibilità di umanità che si può aprire in ciascuno di noi. La nostra era una prova di forza nei confronti dello Stato. Per questo, in sei, arrivammo allo sciopero della fame. La svolta avvenne grazie a un direttore che mostrò un’apertura nei nostri confronti e iniziò un dialogo sulle condizioni minime nel carcere. Un altro evento importante fu il primo intervento del cardinale Carlo Maria Martini, in merito alle condizioni dei detenuti: parole che hanno aperto le brecce che poi sono diventate voragini e hanno avviato il dialogo con la società civile e la riflessione interiore».

«Se isoliamo le persone, per esempio con il 41bis, come possiamo sperare in una loro redenzione?», ha domandato Bonisoli. «Noi stessi abbiamo tradito l’idea di una società giusta con l’uso della violenza. Bisogna rigenerare le risorse delle persone detenute a favore della società. Un detenuto costa allo Stato 170 euro al giorno: se gli permettiamo di lavorare all’esterno, fa risparmiare lo Stato e aiuta la società a crescere. Il carcere continua invece a rappresentare le contraddizioni della nostra collettività. Ecco perché sono estremamente grato ad Agnese per aver accettato di incontrarmi, non era affatto scontato».

«L’amico Franco ha avuto un grande coraggio», ha riconosciuto Moro. «Ma lasciatemi fare una considerazione sulla giustizia riparativa. Chi pensa che la condanna di una persona che ha commesso un grave reato possa dare ristoro alle vittime, sbaglia di grosso. Non ti fa stare meglio, è una grande bugia. La giustizia penale è importante perché individua chi ha fatto cosa, è molto importante sapere chi ti ha tolto qualcuno a te caro. Lo ferma, gli impedisce di commettere altri errori del genere, anche nel suo interesse. Ma che i brigatisti siano andati in carcere, a me ha solo disgustato. Non ero mica contenta, il carcere è una cosa terribile, una sconfitta per tutti noi. Io sono più esigente, voglio quello che mi promette la nostra Costituzione: che noi li aiuteremo a tornare indietro, a tornare tra noi. Questo consente di incontrarli, parlarci, fargli sapere che cosa ci hanno tolto e cosa ci hanno fatto. Sono sicura che Franco ha capito che cosa mi ha fatto, ma non sarebbe mai accaduto se non mi avesse incontrato con il mio dolore. Mi ha spezzato il cuore, mi ha distrutto. Io non sarò mai più quella di prima: quella ragazza è morta insieme a mio padre. E così la mia famiglia, come tutte le persone che sono passate per queste sofferenze. L’unica strada per far sì che l’irreparabile torni nella sfera dell’umano, è l’incontro. L’umano è fatto di cose belle e anche di cose brutte. Franco ha commesso tanti errori, ma io non sono da meno».

La copertina del libro che parla di lotta armata e dialogo con le vittime

«La legge sulla giustizia riparativa è un passaggio molto importante, che dà valore a tanti anni di lavoro e incontri, in Italia e persino all’estero», ha poi detto Bonisoli. «L’esperienza della lotta armata nel nostro Paese, da un po’ di tempo viene studiata anche oltre confine e riguarda l’Ira irlandese, l’Eta dei Paesi Baschi, il conflitto israelo-palestinese. Avvertiamo ovunque il desiderio di tante persone di parlare di questo, di confrontarsi. Il quadro legislativo dice che questo percorso si può fare, ora si tratta di dargli un preciso indirizzo. In questo, il mondo del Terzo settore può essere determinante: questo luogo ne è la conferma. La nostra terribile esperienza, spero irripetibile, può essere un modo per aiutare i giovani a trovare un dialogo, per esempio con i loro insegnanti a scuola».

Uno scorcio della comunità Il Samaritano, nel territorio di Arborea

«Eravamo convinti di poter creare una memoria condivisa sugli anni di piombo, ma poi abbiamo capito che non era possibile», ha sottolineato Moro. «Non è possibile perché la memoria di Franco non è la mia. Ma io posso ascoltare la sua e lui la mia. Ecco, dobbiamo arrivare ad ascoltarci reciprocamente. E questo vale per tutto, non solo per quel periodo storico. Abbiamo fatto tantissimi incontri in giro per l’Italia e ho capito due cose: il nostro non è un Paese umano ma ha voglia di cambiare, ce lo dice la gente che viene ad ascoltarci con il desiderio di tornare indietro, trovare altre strade. Seconda cosa: moltissime persone ci dicono che questi incontri hanno permesso loro di chiudere un cerchio. Molte di loro erano bambini, a quei tempi, e hanno vissuto il dolore, la rabbia, la paura dei loro genitori. Spesso erano figli di poliziotti o carabinieri che non sapevano se quel giorno sarebbero tornati vivi a casa. In questo Paese è rimasto un grande non detto. C’è bisogno di dare parola alle persone che hanno sofferto e sono rimaste colpite da questi eventi. Nessuno ha accolto il loro dolore, nessuno ha permesso di esprimersi. Non abbiamo bisogno di talk show, ma di dare voce a una generazione muta. I nostri figli non sanno niente di quell’epoca perché noi non sappiamo raccontarla neanche a noi stessi. Davvero crediamo che questi fossero solo gruppi di matti che usavano le armi?».

«Le guerre ci dimostrano che non c’è limite al male, ma è vero anche che non c’è limite al bene», ha concluso Bonisoli. «Questi incontri aiutano a creare la memoria, soprattutto tra i giovani. Anni fa non mi aspettavo che sarebbe accaduto tutto questo. Non avrei immaginato neppure lontanamente la possibilità che tutto questo si trasformasse in un’amicizia vera, profonda, che io sento sino in fondo. Quando Agnese prima mi ha definito “il mio amico Franco”, mi sono sentito in difficoltà perché è davvero troppo, non lo merito».

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