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Agadez, la speranza dei rifugiati e l’incontro con il Sultano

Con un volo delle Nazioni Unite, Daniele Biella e l'equipe di Caritas Italiana e Gandhy Charity raggiungono la città patrimonio dell'Unesco alle porte del Sahara, i cui abitanti - autoctoni e rifugiati - oggi lottano con povertà, traffici internazionali e ripercussioni delle migrazioni forzate. La seconda puntata del diario

di Daniele Biella

«Puoi presentarti e dirmi cosa fai da queste parti?». A metà pomeriggio, nella calda Agadez, quando Oumarou Ibrahim, il Sultano del Air, mi rivolge questa domanda seduto sulla sedia sfarzosa nella sala ricevimenti del suo Sultanato, mi guardo attorno: è tutto vero? Sì, lo è.

Preso dal vortice degli incontri di questa seconda giornata in Niger, dopo l’evocativo volo Onu della mattinata – quasi tre ore sorvolando pochissimi insediamenti umani – che ci ha portati dalla capitale Niamey fin qui su alle porte del deserto del Sahara, ho realizzato solo in quel momento di essere al centro di un momento eccezionale. Perché il Sultanato, creato dalle tribù Tuareg della zona, attorno al 1400 ha dato il là alla fondazione della città ed è ancora oggi, seppur di dimensioni più ridotte, il fulcro della società: quando parla il Sultano, 53simo discendente della stirpe, tutti lo ascoltano. Manuel Dos Santos, capo dell’Unhcr (Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati) qui ad Agadez, nell’introdurmi l’incontro dopo averlo organizzato, era stato chiaro: è grazie al Sultano che, nonostante la povertà endemica, la popolazione locale tollera la presenza delle migliaia di rifugiati e migranti nella zona. Proprio così: nell’ora in cui ho potuto dialogare con Oumarou – stimato anche dall’Unesco, che nel 2013 ha inserito il centro storico di Agadez tra i patrimoni dell’umanità – è stato chiaro che il suo desiderio di vedere vivere la sua gente in pace e prosperità passa attraverso l’accettazione dello straniero, qualsiasi provenienza abbia.

C’è stato l’incontro con il Sultano, ma anche molto altro, nel mio primo giorno ad Agadez, città che da anni è nei miei pensieri e di chiunque si occupa di migrazioni per essere il crocevia del passaggio verso l’Algeria e la Libia, nazioni in cui oggi però è quasi impossibile rimanere: dall’Algeria i migranti vengono respinti dalla polizia oltre il confine nigerino, dalla Libia scappano per le violenze subite. Le stesse violenze che da anni vengono denunciate dalle vittime ma che rimangono nell’impunità totale e che scavano profondi solchi nell’animo delle persone: ascoltare i racconti delle persone intervistate da Caritas Italiana è una discesa verso l’inferno rallentata dall’unico fatto che ora le persone sono al sicuro e che, probabilmente, per alcuni di loro il futuro è una nuova sfida in Italia e in Europa, lontano dagli orrori. Ieri, in particolare, abbiamo conosciuto diverse famiglie sudanesi, scappate prima dal Darfur in fiamme e poi dalla Libia: Daniele Albanese, Oliviero Forti e Luciana Forlino di Caritas, con Alganesc Fessaha, hanno spiegato loro la possibilità dei corridoi umanitari, e una piccola luce si è accesa in occhi da troppo tempo spenti per il dolore e la perdita della speranza.


Ad Agadez queste persone vivono in un campo fuori città, in condizioni comunque piuttosto dure, oppure in appartamenti cittadini messi a disposizione da Unhcr, che qui più che altrove opera a stretto contatto con la popolazione, mantenendo comunque alti gli standard di sicurezza data la pericolosità dell’area, considerata dalle Nazioni Unite a livello 4 su 6 (sei è la guerra, per intenderci), dati i traffici e contrabbandi ancora attivi lungo queste rotte qui nel Nord del Niger e la diffusione del terrorismo a Sud. Standard che la stessa Onu ci ha elencato in un briefing a cui abbiamo partecipato appena atterrati in città, dal quale è chiaro il messaggio per gli espatriati e i “visitatori” come noi: non uscire dalla città perché a cinque minuti di distanza inizia il deserto e la mancanza di sicurezza, e non andare in giro dopo le 22, che paradossalmente è la stessa regola che abbiamo ora in Italia a causa della pandemia.

A proposito di pandemia, ecco come stanno le cose qui in Niger: poche migliaia di contagi accertati, per la stragrande maggioranza asintomatici, meno di un centinaio di vittime, ospedali non in allarme e generale tranquillità della popolazione. Detto questo, nonostante le mascherine nei luoghi aperti non vengono portate, in ogni edificio in cui entriamo ci viene misurata la temperatura e dispensato del gel disinfettante, e in ogni incontro la mascherina è sempre indossata da tutti. L’impressione è che certamente il tracciamento dei contagi qui è molto minore che in Paesi come l’Italia, ma è chiaro anche il fatto che il Covid-19 non fa molta paura in una zona in cui la malaria e altre malattie fanno contare un numero di morti molto più alto, in particolare nella stagione delle piogge.

Viaggi come questo permettono di capire come ogni cosa va guardata da più punti di vista: qui fino a poco tempo fa era il “bianco” il portatore di questa nuova pandemia, come ci raccontano gli espatriati. Ora va meglio, noi stessi veniamo avvicinati – sempre con un minimo di distanza – e ci avviciniamo alle persone in strada, bambini compresi, per dialogare in estrema cordialità e curiosità reciproca (in francese, la lingua ufficiale del Niger dato il passato coloniale, mentre l’inglese non è molto diffuso).

Parliamo di questo ed altro anche a cena, in un ristorante con ottima cucina costruito con fango e paglia, architettura tipica della zona tra le cui bellezze spicca il minareto alto 27 metri, simbolo della città che oggi abbiamo visto di passaggio ma che visiteremo domattina presto. Anche in questo caso con il beneplacito del sultano: «ma non andate fino alla punta, che è pericolante», ci avverte con occhi profondi, avvolto nel suo turbante. Seguiremo il consiglio.

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