Mondo
Africa, un pozzo nero
Nei prossimi 10 anni la dipendenza degli Usa dal petrolio del continente africano salirà dal 15 al 25%.
L?Africa galleggia sul petrolio e sta ormai diventando per gli Stati Uniti una priorità geopolitica che potrebbe condizionare non poco il futuro del continente. Nei prossimi dieci anni, stando alle stime della Casa Bianca, le importazioni americane di petrolio e gas naturale dalla sola Africa Occidentale dovrebbero salire dall?attuale 15% al 25. Le riserve terrestri e offshore di Paesi come Angola, Camerun, Ciad, Gabon, Guinea Equatoriale, Nigeria, São Tomé e Principe sono immense e rappresentano un grosso business sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo. Si tratta di giacimenti parzialmente sfruttati, il cui greggio è considerato, nel gergo tecnico, ?light? (?leggero?), cioè a basso tenore di zolfo; proprio la qualità di cui vanno ghiotte le raffinerie occidentali per produrre carburanti che rispettino le normative ambientali.
Una nuova politica
L?indirizzo della nuova politica energetica è stato impresso dall?amministrazione del presidente Gorge W. Bush che ha praticamente ridisegnato, durante il suo primo mandato, la carta degli approvvigionamenti di petrolio destinati agli States. Tutto iniziò il 25 gennaio 2002, quando L?Iasps – Institute for advanced strategic and political studies organizzò un seminario al quale presero parte diversi membri della Casa Bianca come Barry Schutz, esperto di questioni africane, insieme a numerosi consulenti internazionali, responsabili dell?industria petrolifera e di società d?investimento.
Da questa sessione nacquero due iniziative: l?Aopig – African oil policy initiative group, interfaccia tra il settore privato e pubblico, e un libro bianco intitolato African Oil, A Priority for Us National Security and African Development.
Per non ripetere gli errori commessi nella turbolenta area mediorientale, il libro bianco dell?Aopig suggerì, tra l?altro, di prestare grande attenzione alla trasparenza nelle dichiarazioni degli introiti derivanti dall?oro nero e di ampliare le facilitazioni doganali già offerte dagli Stati Uniti all?Africa. Sempre su questa linea fecero seguito, nel luglio del 2004, due importanti audizioni, tenutesi di fronte al gruppo di lavoro sull?energia della Commissione per le Relazioni estere del Senato Usa. Stephen Morrison, del Center for Strategic and International Studies, e David Goldwyn, già sottosegretario per le Questioni energetiche negli affari internazionali, ribadirono, in due diversi interventi, che il nuovo cardine della politica energetica statunitense è rappresentato dal Golfo di Guinea.
I numeri della Nigeria
Le previsioni di Goldwyn, rispetto alla politica degli investimenti, parlano chiaro. Angola, Guinea Equatoriale e Nigeria potrebbero passare in termini di ?liquefaction capacity? da 9 a quasi 40 milioni di tonnellate per anno. La Nigeria, ad esempio, attualmente produce 2,12 milioni di barili al giorno e sarebbe in grado, con il sostegno americano, di raddoppiare la produzione entro il 2009. L?Angola, che produce 900mila barili al giorno potrebbe fare lo stesso raggiungendo i 2 milioni di barili nei prossimi cinque anni.
Queste cifre, illustrate da Goldwyn, devono essere prese naturalmente col beneficio d?inventario. Infatti, il gettito petrolifero degli ultimi 40 anni, dovrebbe aver fruttato alla Nigeria 350 miliardi di dollari; non si capisce allora come mai il suo Pil sia così disastrato: era a 32 miliardi di dollari nel 1998 e a 43 miliardi nel 2002. Tanto per confronto, quello degli Usa è ben oltre i 10 trilioni di dollari. Lo stesso vale naturalmente per altri Paesi africani. L?organizzazione non governativa Global Witness calcolò che nel 2001 dalle casse dell?Angola, che pure ricava l?87% del reddito dall?oro nero, sarebbero svaniti ben 1.600 milioni di dollari, un terzo delle entrate; pare finiti nelle tasche di due petrolieri locali.
Diritti umani e petrolio
L?agenda politica di Washington nei confronti dei Paesi africani produttori di greggio, stando a quanto dichiarato da Morrison, dovrebbe essere incentrata sulla trasparenza, il rispetto dei diritti umani e il consolidamento delle piattaforme democratiche, come peraltro auspicato dal Libro bianco di cui sopra. Dal punto di vista politico, Morrison sottolineò che l?intera operazione non potrà non tener conto del programma messo a punto dall?ex presidente Usa, Bill Clinton, denominato Agoa – African growth and opportunity Act, che già consente ad alcuni Paesi africani, i quali hanno accettato una serie di standard in fatto soprattutto di liberalizzazione economica, di esportare negli Stati Uniti senza dover sottoporre i propri prodotti a nessun tipo di restrizione commerciale. In questo contesto favorevole, le grandi compagnie petrolifere vanno davvero a nozze.
Tanto per citarne una, la texana Vanco Energy, con sede a Houston, è riuscita ad ottenere i diritti per la ricerca e sfruttamento su 121.410 chilometri quadrati offshore in Marocco, Senegal, Costa d?Avorio, Ghana, Guinea Equatoriale, Gabon, Namibia e Madagascar.
Il ruolo della Cina
Naturalmente, le compagnie americane dovranno fare i conti con la concorrenza, in primo luogo europea, Francia in testa, anche se non va sottovalutato il ruolo della Cina, secondo importatore mondiale di petrolio dopo gli Stati Uniti, ma con una popolazione cinque volte superiore a quella degli States. Va ricordato che proprio la China National Petroleum Corporation è socio di maggioranza, col 40% del capitale, della sudanese Greater Nile Petroleum Operating Company.
Da quanto detto finora, sembrerebbe che l?Africa abbia tutte le carte in regola per competere alla grande con il polo mediorientale. Ciò nonostante, vi sono dei fattori negativi, a detta degli esperti americani, tra i quali figurano la mancanza di adeguate infrastrutture portuali, la scarsità di manodopera qualificata e il rischio di un?instabilità politica .
A questo riguardo gli Stati Uniti si sono impegnati a garantire la sicurezza nell?ambito di un programma d?intervento militare, dal sapore francamente neocoloniale, denominato Acsp – African coastal security program che, oltre a rispondere alle note esigenze strategiche della lotta contro il terrorismo, dovrebbe controllare le principali rotte del petrolio. Ma l?esperienza irachena insegna che è troppo rischioso giocare col fuoco. In Africa lo scenario non è affatto più allettante di quello mediorientale, soprattutto se si considerano i controversi rapporti che legano certi regimi dispotici con alcuni governi occidentali. Il caso di Teodoro Obiang Nguema, dispotico presidente della Guinea Equatoriale, è a dir poco emblematico. Godendo i favori di Washington continua impunemente a fare il bello e il cattivo tempo, violando sistematicamente i diritti umani, con la compiacenza, denunciano alcune voci libere, della società texana Halliburton Inc., specializzata nella trivellazione.
Finora, in Africa, lo si voglia o no, gli interessi petroliferi non sono mai coincisi con le istanze della società civile. Inoltre puntare sul continente, per allentare la dipendenza energetica dal Medio Oriente, potrebbe risultare pericoloso considerando che alcuni Paesi come la Nigeria sono già teatro di violenze perpetrate da fanatici della jihad. Il rischio è che il Golfo di Guinea e altre regioni dell?Africa si trasformino in aree di contese dove a pagare il prezzo più alto sia la povera gente.
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