Segnali contraddittori caratterizzano il panorama geopolitico africano in questi primi due mesi del 2010. A partire proprio dal recentissimo accordo di pace tra il governo di Khartoum e i ribelli darfuriani del Justice and Equality Movement .
Sulla carta, l’intesa servirebbe a normalizzare la situazione nella tormentata regione del Sudan, anche se l’esercito regolare si è scontrato con alcune formazioni ribelli proprio nello stesso giorno in cui il presidente sudanese Omar Hassan al-Bashir annunciava la fine delle ostilità. In effetti, il principale motivo di incertezza sul processo di pacificazione viene dalla mancanza di adesione all’accordo da parte della più importante fazione ribelle darfuriana, quella del Sudan Liberation Army , capeggiata da Abdel Wahed Mohamed al-Nur. Considerando che Bashir non è mai stato un personaggio affidabile, peraltro con un mandato di cattura internazionale sulle spalle, gli osservatori invitano alla prudenza. Intanto, nel Niger è stato appena destituito il presidente Mamadou Tandja il quale aveva fatto carte false lo scorso anno per rimanere in carica a tempo indeterminato. E sebbene la giunta militare abbia promesso di restituire presto il potere ai civili restaurando l’ordine democratico, non pochi analisti temono che il Paese finisca dalla padella alla brace. Come se non bastasse, la situazione è sempre incandescente in Costa d’Avorio dove un paio di settimane fa l’opposizione è scesa in campo per contestare la decisione del presidente Laurent Gbagbo di sciogliere governo e commissione elettorale. Sta di fatto che la mobilitazione ha costretto Gbagbo a correre ai ripari, dando il via libera per un esecutivo di unità nazionale con la promessa che entro la fine di aprile, al massimo i primi di maggio si svolgeranno le agognate presidenziali. Nel frattempo rimangono drammaticamente irrisolte le questioni della crisi somala, della ‘guerra fredda’ tra Etiopia ed Eritrea e la cronica instabilità nel Nord-Est dell’ex Zaire. A questo scenario già così complesso si potrebbero aggiungere il malessere della Guinea Conakry, nel pieno di una delicata fase di transizione innescata da un golpe nel dicembre 2008. Mentre più a meridione, nell’Africa Australe, vi sono Paesi che patiscono una grave deficit di democrazia come lo Zimbabwe, ancora ostaggio del presidente Mugabe, e l’Angola alle prese con la più riottosa delle sue province, la Cabinda. Nel complesso si ha l’impressione che, nonostante gli sforzi profusi sul piano formale dalla diplomazia internazionale, qualsiasi positivo segnale di svolta debba essere preso col beneficio d’inventario, a cominciare dai casi del Darfur e della Costa d’Avorio. L’Unione Africana appare così sempre più come una sorta di conglomerato acefalo, ostaggio di vecchie oligarchie non meno che di potentati stranieri bramosi di fonti energetiche. Non è un caso se il Darfur galleggia sull’oro nero, il Niger dispone di giacimenti di uranio, la Costa d’Avorio di riserve di idrocarburi off-shore, per non parlare dell’allegro business petrolifero angolano. Le promesse di Barack Obama di promuovere un nuovo corso, per il momento sono rimaste nell’aria, e la Casa Bianca continua a concentrarsi su questioni interne impellenti come la riforma sanitaria. Il governo di Pechino approfitta della relativa disattenzione Usa, continuando la penetrazione in Africa. Una colonizzazione realizzata senza mobilitare eserciti, trasferendo capitali a dismisura e inglobando (con laute parcelle) i gruppi di potere locale. In questo contesto, l’Europa – nonostante interessanti ma episodiche iniziative di singoli Stati, Italia compresa – finora ha fatto la ‘bella addormentata’ quando potrebbe essere promotrice di nuovi assetti a partire dalla divisione dei compiti e delle funzioni tra Nord e Sud del mondo. Una sfida che sarebbe grave ignorare. (pubblicato su Avvenire del 26/2/ 2010, pagina 2)
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