In questi anni ho tentato in più circostanze di contrastare la tentazione dell’afropessimismo, ma devo confessare che quanto sta accadendo nel continente è estremamente preoccupante. Anzitutto vi è il nuovo conflitto tra Nord e Sud Sudan, determinato dal duplice contenzioso sulla delimitazione dei confini e sullo sfruttamento del petrolio. Sta di fatto che ormai è guerra aperta tra Khartoum e Juba e come al solito è la povera gente a pagare il prezzo più alto. Nel frattempo la questione somala rimane aperta con tutto il suo carico di miserie e nefandezze che rendono quel territorio “off limits”. La regione del Sahel, sul versante opposto del continente, è anch’essa in subbuglio, non solo per l’emergenza carestia lanciata dalle organizzazioni internazionali, ma anche a seguito della secessione dell’Azawad decretata dai ribelli tuareg. Un fenomeno estremamente complesso che coinvolge anche altri componenti armate di matrice di jihadista. Dulcis in fundo, giovedì scorso in Guinea Bissau vi è stato l’ennesimo colpo di Stato, in una Paese in cui la popolazione sognava ad occhi aperti l’avvento di un nuovo corso democratico.
Come già scritto più volte su questo Blog, la presenza di oligarchie avvinte alle ex potenze coloniali, soprattutto attraverso la massoneria, e a interessi nepotistici da quando questi Paesi divennero indipendenti, ha sempre reso difficile la gestione della res publica in Africa. Sarebbe pertanto forviante dividere lo scenario tra buoni e cattivi pensando che le responsabilità ricadano unicamente sui golpisti o sui movimenti armati. Vi sono infatti molto spesso colpe che pendono sugli stessi governi civili i quali in molti casi non hanno risposto adeguatamente ai bisogni delle popolazioni, disincentivandone la partecipazione alla vita civile. Ma non v’è dubbio che l’instabilità del continente è in gran parte determinata da più o meno occulte complicità straniere, mai dichiarate e strettamente connesse ad interessi di tipo commerciale. La Francia, ad esempio, continua ad ingerire pesantemente nelle vicende dei Paesi del Sahel, soprattutto per quanto concerne il controllo delle fonti energetiche (petrolio e uranio). Non è un caso se recentemente l’autorevole settimanale Jeuneafrique ha scritto che “Bamako sospetta Parigi di aver fatto un accordo con i ribelli tuareg del Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad (Mnla)”. Citando un alto ufficiale dell’esercito maliano, habitué del palazzo presidenziale di Bamako, nell’articolo di Jeuneafrique viene ventilata l’ipotesi che la Francia abbia chiesto ai tuareg presenti nel deserto meridionale libico di lasciare Gheddafi, promettendo un deciso sostegno nella lotta di liberazione della regione settentrionale maliana dell’Azawad. La presenza in Francia di almeno quattro portavoce dello Mnla come anche voci insistenti che da settimane circolano negli ambienti diplomatici africani relative ad un sostegno francese in favore della ribellione tuareg, spingono a considerare il governo di Parigi sia non del tutto estraneo alle recenti vicende maliane. E cosa dire della presenza dei cinesi che intrattengono proficue relazioni commerciali con tutti i i regimi o presunte democrazie africane? Un business, quello dell’Impero del Drago, che non pare assolutamente rispondere ai criteri di giustizia e di equità agognati dalla povera gente. Inutile nasconderselo, l’Africa è ancora ostaggio delle proprie ricchezze, dal Sahel alla Somalia, passando per il Sudan. D’altronde a questo servono guerre e colpi di Stato, non certo al bene delle stremate popolazioni e al sogno del riscatto dall’onta coloniale.
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