Cultura

Africa orientale, la guerra incombe

La tragedia che nel 98 ha devastato il Congo rischia di avere un atroce seguito: sarebbe una catastrofe umanitaria, di Giulio Albanese

di Redazione

Lungi da ogni disfattismo, parlando delle crisi che tuttora attanagliano il continente africano, è sempre azzardato avventurarsi in previsioni apocalittiche le quali, se assecondate, acuirebbero lo sconforto e la rassegnazione. Eppure per chiunque ami davvero l?Africa, parafrasando il saggio François de la Rochefoucauld, «è più difficile dissimulare i sentimenti che si hanno che fingere quelli che non si hanno». In effetti, da un?attenta lettura dei recenti avvenimenti che interessano il Corno d?Africa, si ricava un quadro preoccupante che rivela la mancanza di visione da parte di certi ambienti della diplomazia internazionale. Per carità, tutti sanno che la diplomazia è anche l?arte della strategia e della visione a lungo termine, ma troppe volte si è passati da un fallimento all?altro con la pretestuosa illusione che ogni sforzo costituisse sempre e comunque un contributo di pensiero. Beninteso, non stiamo parlando di un settore marginale dell?Africa, ma dell?area continentale maggiormente esposta a turbolenze d?ordine geopolitico, economico e religioso che potrebbero sfociare in un imponente e devastante conflitto senza precedenti nella storia del continente. Ma andiamo per ordine. Domino Sudan La crisi nella regione sudanese del Darfur tende ad investire il Ciad Occidentale e addirittura la vicina Repubblica Centrafricana. A questo riguardo, come ha recentemente stigmatizzato il segretario generale uscente delle Nazioni Unite in occasione della Giornata mondiale dei diritti umani del 10 dicembre, le responsabilità ricadono innanzitutto sugli assertori di un?evanescente nozione di sovranità, anteposta al sacrosanto valore della vita umana; su quelli che interpretano la solidarietà schierandosi dalla parte dei governi invece che della gente; e su quanti vigilano ad oltranza sempre e comunque sui propri interessi finanziari, prescindendo dalle ripercussioni che certe loro scelte potrebbero avere su donne, vecchi e bambini. «La verità è che nessuna di queste argomentazioni può scusare, e neanche giustificare, la vergognosa passività mostrata dalla maggior parte dei governi», ha denunciato Kofi Annan. Com?è noto, le continue incursioni dei famelici janjaweed, i predoni a cavallo al soldo del regime sudanese, stanno mettendo a ferro e fuoco interi villaggi causando morte e distruzione. E mentre Khartoum continua a negare ogni addebito, rifiutando l?ingresso dei Caschi blu nel Darfur, sostiene contemporaneamente la rivolta dell?Uffd, l?Unione delle forze per la democrazia e lo sviluppo nel Ciad con l?obiettivo di destabilizzare il potere del presidente Idriss Déby. Nel frattempo si acuisce la contaminazione imposta dai movimenti jihadisti provenienti dal vicino Medio Oriente e dal versante maghrebino, alimentati da circuiti del salafismo più intransigente, quello tradizionalmente fiorente nella penisola arabica. Ne deriva un effetto domino, una sorte di reazione a catena capace d?innescare una pericolosissima instabilità in vasti settori dell?Africa orientale. Il ruolo degli Usa La crisi nelle relazioni tra il governo di Addis Abeba e le Corti islamiche di Mogadiscio la dice lunga. Da quando nel giugno scorso la capitale somala è caduta nelle mani dei fautori della sharìa, la legge islamica, l?Etiopia ha ritenuto opportuno sostenere anche militarmente il Tng, il governo di transizione nazionale somalo che, sebbene goda di un riconoscimento internazionale, è confinato a Boidoa e controlla a fatica pochi scampoli di territorio. La situazione poi è drammaticamente degenerata da quando, la scorsa settimana, gli Stati Uniti, temendo che le Corti islamiche insediate a Mogadiscio possano costituire il vivaio ideale per la coltura di cellule eversive al soldo di Al Qaeda, sono riusciti ad ottenere dal Consiglio di sicurezza dell?Onu l?approvazione di una risoluzione che autorizza la costituzione, da parte dei Paesi africani, di una forza di pace in Somalia con il compito di proteggere il governo di transizione nazionale e di promuovere un dialogo tra l?esecutivo somalo e le Corti. Il testo della risoluzione dà praticamente il via libera al dispiegamento di un contingente dell?Igad – Autorità intergovernativa per lo sviluppo, l?organismo regionale creato nel 1986 che comprende sette Paesi dell?Africa orientale: Eritrea, Etiopia, Gibuti, Kenya, Sudan, Uganda e Somalia. A questo punto la tensione è altissima perché proprio le Corti hanno detto chiaro e tondo che la presenza di truppe straniere – anche africane – in Somalia è da considerarsi «un punto non negoziabile». Come era prevedibile, il risultato sono stati i combattimenti nei pressi di Baidoa, a riprova che di questo passo il rischio è di cadere dalla padella alla brace. La forza delle Corti si spiega anche perché Washington nel recente passato aveva armato una fantomatica coalizione ?contro il terrorismo? di signori della guerra, sconfitta poi dagli islamici, ignorando così il governo di transizione che di fatto è stato delegittimato e indebolito. Secondo gli analisti, a questo punto sarebbe logico chiamare in causa coloro che dietro le quinte finanziano e proteggono le Corti, in particolare nel vicino Medio Oriente, l?Arabia Saudita. La partita del petrolio D?altronde, un dato di cui raramente viene fatto accenno , riguarda la presenza in Somalia di petrolio, come indicato da studi geologici svolti poco prima che fosse rovesciato il regime di Siad Barre. Ma tornando al contesto generale del Corno d?Africa, è chiaro che gli interessi in competizione tra governi locali e compagnie energetiche occidentali e asiatiche, soprattutto cinesi, divengono ulteriori elementi di criticità. La presenza di consistenti giacimenti di petrolio nell?intera regione accresce le bramosie di poteri sovrannazionali, dal Darfur all?Oceano Indiano, dalla regione sudanese dell?Upper Nile al Golfo di Aden. Come se non bastasse, è sempre più profondo il solco che separa l?Eritrea dall?Etiopia. La guerra fredda tra i due Paesi, seguita agli accordi di Algeri del 2000, rappresenta un altro dei fattori di maggiore instabilità a livello regionale. Infatti il governo eritreo non solo sostiene le Corti islamiche di Mogadiscio in funzione antietiopica, ma ha anche instaurato nuovi rapporti con il regime islamico di Khartoum i quali potrebbero rivelarsi altamente strategici nel caso di conflitto armato con Addis Abeba. Di fronte a questo scenario, la preoccupazione del premier etiopico Meles Zenawi è duplice: da una parte teme l?accerchiamento del suo Paese da parte di un?alleanza filo-islamica che potrebbe radicalmente mettere in discussione la sua leadership, dall?altra è sensibilmente preoccupato per la crescita percentuale dei musulmani in Etiopia che, secondo fonti attendibili, avrebbero superato la soglia del 50% rispetto ai cristiani copti. Mentre il mandato del segretario generale dell?Onu, Kofi Annan volge a termine, sul Corno d?Africa soffiano i venti di una seconda guerra panafricana (la prima sconvolse la Repubblica democratica del Congo nel 98 e durò cinque anni coinvolgendo i Paesi limitrofi). Ritorna alla memoria una cinica battuta del geniale sir David Frost, uno dei volti più noti del giornalismo televisivo britannico: «La diplomazia è l?arte di permettere a qualcuno di fare a modo tuo». www.allafrica.com www.crisiweb.com Vedi anche: Fucili carichi per il grande riskio

17 centesimi al giorno sono troppi?

Poco più di un euro a settimana, un caffè al bar o forse meno. 60 euro l’anno per tutti i contenuti di VITA, gli articoli online senza pubblicità, i magazine, le newsletter, i podcast, le infografiche e i libri digitali. Ma soprattutto per aiutarci a raccontare il sociale con sempre maggiore forza e incisività.