Mondo

Africa off limits

Nella top-five delle aree in cui i cooperanti rischiano di più ci sono quattro Stati del continente nero

di Emanuela Citterio

Incancrenite, oltre che dimenticate. Sono crisi che rischiano di andare ancor più alla deriva quelle che riguardano la Somalia, la Repubblica democratica del Congo, lo Zimbabwe e il Darfur. E il paradosso è che, nonostante i bisogni estremi delle popolazioni coinvolte, in questi stessi Paesi è sempre più difficile portare aiuti.
Nella top-five delle aree in cui i cooperanti rischiano di più di essere uccisi o rapiti ci sono tutti e quattro gli Stati africani: al primo posto la Somalia, con ben 35 cooperanti uccisi e 26 rapiti nel 2008, poi Zimbabwe, una parentesi asiatica con l’Afghanistan, Darfur e Congo. In Somalia e nella regione occidentale del Sudan si sono verificati gli ultimi rapimenti in ordine di tempo, fra cui quello del medico italiano Mauro D’Ascanio insieme a due colleghi di Medici senza frontiere. Sempre in Darfur sono state le ong a subire la ritorsione del presidente Omar Al Bashir dopo l’annuncio del mandato d’arresto nei suoi confronti della Corte penale internazionale. Somalia, Congo, lo Zimbabwe Darfur compaiono anche nelle dieci crisi più dimenticate del pianeta, elencate dal rapporto annuale di Medici senza frontiere. L’attenzione dei media su queste crisi è discontinua e conosce dei paradossi: perché, per esempio, si parla molto di più del Darfur rispetto alla Somalia, se quest’ultima è considerata dall’Onu una crisi ben peggiore della precedente? «Le due crisi sono diverse per ragioni innanzitutto temporali: in Somalia, la ricerca di una soluzione al conflitto è in corso da 17 anni, mentre quella in Darfur è decollata in quanto a visibilità solo da pochi anni» risponde Paolo Magri, direttore dell’Ispi (Istuto per gli studi di politica internazionale). «Entrambe le aree sono strategiche da un punto di vista geopolitico, ma sembra che l’attenzione sulla Somalia sia minore in quanto si ha una sensazione di fatica sia interna che internazionale rispetto al processo di riconciliazione in corso». «Questo non è necessariamente un male» aggiunge Magri. «In certi casi, una minore attenzione mediatica sulle crisi può anche portare a buoni frutti: il mandato di cattura nei confronti di Bashir, che tanto scalpore e attenzione ha destato anche relativamente al Darfur, sembra che non aiuti nel breve periodo il processo di dialogo in corso nella regione nord-est del Sudan».
La crisi economica rischia di lasciare ancor più nell’ombra queste crisi.  «I prossimi appuntamenti internazionali, tra cui in particolare il G20 e il G8, saranno dedicati principalmente alle questioni economiche, lasciando sullo sfondo i grandi temi internazionali, tra cui anche lo sviluppo dell’Africa, nelle sue articolazioni sia economiche che politiche» avverte Magri. «Inoltre, le risorse a disposizione per sostenere processi di pace o di riconciliazione interni come quelli in atto in Zimbabwe e in Somalia, oppure le risorse per finanziarie forze di intervento internazionali come in Congo e in Sudan sono sicuramente ridotte, mettendo a rischio non solo la visibilità e l’attenzione internazionale su queste aree, ma persino la continuazione di quanto di positivo sta già avvenendo per risolvere queste situazioni».

Ecco una sintesi ragionata delle quattro aree di crisi

SOMALIA

È il Paese in cima alla lista nera dei posti più pericolosi per gli operatori umanitari, quello in cui è più difficile portare aiuti: nel 2008 sono stati ben 35 i cooperanti uccisi e 26 quelli rapiti. Una difficoltà che va di pari passo con la gravità della crisi, la peggiore al momento in Africa secondo l’Onu.
Nel 2008 la popolazione somala ha subito le conseguenze di una delle più forti ondate di violenza degli ultimi dieci anni. Secondo stime Onu, gli scontri tra le forze del governo di federale di transizione somalo e i gruppi affiliati alle Corti islamiche, iniziati nel dicembre 2006, hanno provocato la fuga di almeno un milione di somali. Sulla strada che va da Mogadiscio ad Afgooye, vivono oltre 250mila profughi privi di riparo, cibo e cure sanitarie.
Per le ong è sempre più difficile portare aiuti senza essere attaccate. A Mogadiscio l’unico ospedale ancora accessibile alla popolazione è quello gestito da Sos Kinderdorf, che per alcuni periodi è stata costretto a sospendere le attività a causa degli scontri fra gruppi armati. È di fronte al reparto pediatrico di questo ospedale che nel 2006 è stata uccisa suor Leonella Sgorbati, una delle ultime quattro religiose italiane rimaste in Somalia. Sempre nei pressi di Mogadiscio nel maggio del 2008 sono stati rapiti i cooperanti del Cins Giuliano Paganini e Jolanda Occhipinti (poi rilasciati) e a novembre quattro cooperanti somali dell’ong italiana “Water for Life” fondata dall’italiano Elio Sommavilla (dei quali non si sa più nulla). In un quartiere di Mogadiscio controllato dal gruppo islamico al-Shabab sono finite anche Suor Caterina Giraudo e suor Maria Teresa Olivero, sequestrate a El Wak in Kenya.

ZIMBABWE

Stampa e ong imbavagliate. Un’inflazione arrivata a una quota difficile persino da immaginare: 231 milioni%. Un’epidemia di colera che ha colpito 91.000 persone (ultimi dati Oms). E un presidente di 84 anni, in carica da 28, che non vuole lasciare il potere, organizza feste di compleanno e si compra una villa da quattro milioni e mezzo di dollari a Hong Kong mentre il suo popolo è in ginocchio. Succede nello Zimbabwe di Robert Mugabe, o quello che ne è rimasto (solo in Sudafrica sono rifugiati 3 milioni di zimbabwani). La situazione si è deteriorata ancora di più dopo le elezioni legislative del 29 marzo 2008, vinte dall’opposizione alle quali sono seguite violenze orchestrate dalla polizia e dai sostenitori di Mugabe in tutto il Paese. Il ballottaggio per le presidenziali si è trasformato in una farsa, dopo il ritiro dello sfidante Morgan Tsvangirai e con Mugabe come candidato unico. Lo scorso febbraio, dopo mesi di stallo il parlamento ha approvato un emendamento costituzionale che ha permesso la creazione di un governo di unità nazionale. Ma nel frattempo il Paese è stato messo in ginocchio dalla crisi alimentare e dalla mala gestione delle terre da parte del governo, negli ospedali pubblici gli stipendi degli infermieri sono arrivati a una cifra equivalente a mezzo centesimo di dollaro al mese, e molti se ne sono andati a cercare lavoro allíestero. Le ong nel Paese sono sotto tiro. Possono continuare a operare a patto di non parlare di quanto succede in Zimbabwe con la stampa dei propri Paesi.

DARFUR

Tutte le ong straniere devono andarsene nel giro di un anno dalla regione occidentale del Sudan, in guerra civile e crisi umanitaria dal 2003. Se vorranno mandare aiuti li dovranno scaricare nei porti e negli areoporti, saranno i sudanesi poi a occuparsene. È l’ultimo avvertimento lanciato da Omar Al Bashir, il primo presidente al mondo ad essere stato colpito da un mandato d’arresto della Corte penale internazionale.
Il Darfur è stato teatro della più vasta operazione di aiuti umanitari a livello mondiale, con oltre 80 organizzazioni e 15mila cooperanti, che hanno fornito assistenza in una regione in cui un terzo della popolazione è sfollata in seguito al conflitto. «Tuttavia, nonostante gli sforzi umanitari, a cinque anni dall’inizio della crisi del Darfur, centinaia di migliaia di persone sono ancora tagliate fuori dagli aiuti» denuncia Medici senza frontiere. Altre migliaia di persone rischiano di perdere l’assistenza a causa di una serie di fattori: instabilità  delle linee del fronte e delle alleanze tra fazioni armate, attacchi mirati agli operatori umanitari e crescenti restrizioni da parte del governo all’erogazione di aiuti.
Quest’anno 11 operatori umanitari sono stati uccisi e 189 sono stati rapiti in Darfur. Dopo il mandato d’arresto spiccato dalla Cpi, il governo sudanese ha espulso 13 delle principali ong europee operanti nella regione e chiuso tre agenzie umanitarie sudanesi, accusandole di essere «spie» della Cpi. L’11 marzo sono stati rapiti in Darfur cinque operatori di Msf Belgio, tra cui il medico italiano Mauro D’Ascanio, poi rilasciati.

REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO

Dall’inizio del 2009 sono già 15 gli attacchi contro operatori umanitari nella Repubblica democratica del Congo. Muoversi sul terreno è diventato sempre  più difficile dopo la ripresa della guerra in Nord Kivu nel settembre del 2007. Il Centro d’accoglienza Don Bosco gestito dall’ong italiana Vis nella capitale Goma alla fine del 2008 è diventato un rifugio per un migliaio di persone in fuga dai combattimenti fra le truppe ribelli del generale Laurent Nkunda e l’esercito governativo. In  Kivu si è creata un’economia di emergenza che si regge anche sulla presenza delle organizzazioni umanitarie: a Goma ci sono oltre 400 ong, pressoché tutte le grandi organizzazioni internazionali da Oxfam a Care a Save the children, oltre alle agenzie dell’Onu. Fra le ong italiane c’è Avsi (6 italiani più lo staff locale), Coopi (2 italiani, 2 francesi e 80 collaboratori congolesi), Medici senza frontiere (due italiani parte di uno staff internazionale di 80 persone operativo in tutto il Nord Kivu) e Aifo, che non ha espatriati ma che ha avviato e sostiene un centro di salute mentale per il trattamento di patologie neuropsichiatriche infantili che cura 750 bambini. Lo scorso dicembre un cooperante congolese dell’ong italiana Avsi, Boduin Ntamenya, è rimasto ucciso mentre cercava di raggiungere le scuole assistite dall’ong a nord di Goma. In Congo tredici anni di guerra hanno causato un numero di morti che l’Onu stima attorno ai cinque milioni e un numero imprecisato di feriti, migliaia di sfollati nei campi gestiti dall’Unhcr e in quelli nati spontaneamente intorno a Goma, centinaia le donne e i bambini segnati dalle violenze, altrettanti i ragazzi-soldato. Una tragedia umanitaria quella del Nord Kivu che si è consumata quasi sempre lontano dai riflettori dei media.

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