Caos Congo
Africa, non solo guerre e materie prime
«Ciò che bisogna evitare è una guerra diretta tra Congo e Ruanda, che avrebbe l'effetto di una deflagrazione regionale, dalle conseguenze incalcolabili», dice Jean Léonard Touadi, giornalista ed esperto di relazioni internazionali. Che sottolinea: «Le politiche di immigrazione europee sono raccontate in Africa. E rischiano di creare un solco, che può essere irreversibile»
C’è «necessità dell’affermazione di un rapporto euro-africano. Bisogna evitare la deriva dei continenti che io intravedo». A parlare è Jean Léonard Touadi, giornalista ed esperto di relazioni internazionali, originario della Repubblica Democratica del Congo, dove un’offensiva molto rapida ha portato i ribelli del “Movimento 23 marzo” (M23) a occupare la città di Goma.
Touadi, dopo la presa di Goma, in Congo cresce il rischio di una guerra civile.
La situazione si sta facendo giorno dopo giorno, ora dopo ora, sempre più drammatica. Dopo la conquista della città di Goma, sembra che le forze dell’M23 puntino ad altre città del Kivu, tra cui Bukavu. Poi se arrivano a Kisangani la guerra sarà totale. L’allargamento della loro area di occupazione non prefigura nulla di buono, se dovessero prendere altre città oltre a Goma potrebbero anche decidere, se non trovano resistenze, di dirigersi verso Kinshasa. Dall’altro lato, gli scambi di artiglieria tra l’esercito congolese e l’esercito ruandese al confine è un passo estremamente pericoloso. Ciò che bisogna evitare è una guerra diretta tra Congo e Ruanda.
Fino adesso si è combattuto attraverso le varie milizie sostenute dagli uni e degli altri. Una guerra diretta tra i due Paesi avrebbe l’effetto di una deflagrazione regionale, dalle conseguenze incalcolabili. Il Congo ha già conosciuto quello che abbiamo chiamato negli anni ’90 “la prima guerra mondiale africana”, che coinvolgeva almeno nove Paesi africani in questo conflitto. Se una situazione del genere si dovesse ripetere, si può immaginare cosa sarebbe non solo per la regione dei Grandi Laghi, ma per tutto il continente, considerando il carattere nevralgico del Congo.
La Nigeria è da poco entrata nei Brics come Paese partner. Cosa vuol dire, anche simbolicamente?
Simbolicamente vuol dire tantissimo. Si è sempre detto che la Nigeria è un gigante economico ma un nano geopolitico, cioè l’impatto di questo Paese dal punto di vista politico e geopolitico è inversamente proporzionale alla sua popolazione e alla sua ricchezza. È la prima economia del continente, ha superato anche il Sudafrica che una volta era considerata la prima economia continentale. Ma su questo io avrei un po’ di dubbi, perché se si considera il flusso di investimenti la Nigeria è sicuramente uno dei primi Paesi africani in termini di Pil, ma è un Prodotto interno lordo tutto basato su prodotti di estrazioni e di esportazione. Mentre il Sudafrica ha un’economia estremamente diversificata che non si basa solo sull’estrazione mineraria.
Se davvero c’è da fare una fotografia, questo Pil della Nigeria che ha superato quella del Sudafrica per me non è valido perché è basata su investimenti esterni e, soprattutto, di tipo energetico. Sappiamo bene che questo tipo di investimenti non crea un tessuto economico durevole e radicato, soprattutto non crea posti di lavoro. La diversificazione dell’economia nigeriana sta iniziando adesso, grazie alla leva delle startup che lavorano sulle nuove tecnologie, soprattutto giovani, e grazie alla transizione ecologica, dove alcuni gruppi nigeriani sono molto avanzati. Però il Sudafrica ha, di gran lunga, l’economia più diversificata. Dicevo che la Nigeria è un gigante economico ma un nano politico: il suo ingresso nei Brics è significativo sostanzialmente, non solo simbolicamente.
Perché il suo ingresso è significativo sostanzialmente?
Se ci mettiamo accanto all’ingresso della Nigeria, quello dell’Etiopia, dell’Egitto e del Sudafrica, che quest’anno presiede il G20, si sta configurando un posizionamento politico del continente africano estremamente interessante, innovativo per la prima volta (nel 2025 uno Stato africano guida per la prima volta il G20, ndr). L’Africa non subisce più le appartenenze forzate a schieramenti fatti da altri, ma sta entrando da protagonista in questo nuovo schieramento che si sta configurando. La presidenza sudafricana del G20, fino a pochi anni fa, non si poteva immaginare.
Le politiche di immigrazione, con la fortezza che si sta costituendo in Europa, sono raccontate in Africa. E rischiano di creare un solco che può essere irreversibile
Andiamo sempre di più verso un’Africa che ha una strategia di multi allineamento funzionale. Nel senso che, una volta superate le alleanze tradizionali con le vecchie potenze coloniali, il continente si sente libero, geo-politicamente, di allearsi con gli uni e con gli altri in funzione dei suoi bisogni, delle sue necessità. Anche questa è una novità, il multi allineamento funzionale per un continente che ha subito per decenni le logiche della guerra fredda, oppure le logiche neocoloniali della Francia, per esempio.
Per quanto riguarda il neocolonialismo della Cina, che ha investito significativamente in infrastrutture e progetti economici in Africa, cosa vuole dirci?
Non passano molto, nell’opinione pubblica africana, alcune espressioni. Quando, per esempio, si parla del neocolonialismo estrattivo della Cina o di altri Paesi, la reazione degli africani è di dire «Senti chi parla. L’Europa non è titolata a stigmatizzare ciò che ha fatto per secoli, dal XVI secolo fino a ieri». Secondo me, più che di neocolonialismo, che cosa hanno scoperto in fondo gli africani, alla fine degli anni ’80? Quando erano stremati e strangolati dal peso del debito, per cui il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale hanno dettato le cosiddette “politiche di aggiustamento strutturale” (che poco hanno strutturato, anzi hanno contribuito a indebolire strutturalmente non solo le economie ma anche le società africane), si è presentato un nuovo interlocutore: la Cina.
Che ha detto due cose. La prima: «Io non ho nessuna storia coloniale con te e ti propongo degli accordi win win», dicono loro, di reciproca convenienza. E la seconda, che gli africani possono pagare non solo con valuta estera (come nel passato facevano con le potenze coloniali, la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale), ma anche con le loro materie prime, in natura. È chiaro che anche questo non è un accordo davvero da pari a pari, stiamo parlando di una potenza come la Cina e di Paesi come l’Angola, l’Etiopia, la Zambia. Ma non viene mai abbastanza sottolineato una convenienza che gli africani hanno avuto in questo.
Quale?
Finalmente questi Paesi hanno avuto le infrastrutture che la colonizzazione non aveva loro lasciato. La colonizzazione aveva sviluppato solo le infrastrutture dalle miniere verso i porti, e nient’altro. La Cina ha fatto vedere agli africani che era possibile avere strade, ponti, scuole, stadi in poco tempo, scambiando anche convenientemente con le materie prime. È chiaro che questa estrazione di materie ha avuto un impatto negativo. L’Africa non è attrezzata a controllare l’estrazione in grandi quantità, né a controllare la qualità. Mi riferisco all’inquinamento prodotto per le estrazioni delle materie prime, con l’uso dei prodotti chimici che ha inquinato i fiumi, i suoli. Questo non solo per l‘estrazione dell’oro, ma anche del cobalto nella Repubblica Democratica del Congo.
C’è bisogno di una decodificazione della memoria collettiva tra europei e africani
Ci sono delle criticità in questo rapporto estrattivo, in questo scambio tra infrastrutture e materie prime. Ma nello stesso tempo, c’è adesso una linea ferroviaria che collega Mombasa con la Tanzania, e che collega Gibuti all’Etiopia, e ci sono tante strade, ponti, centrali idroelettriche che prima erano impossibili. Solo per uno studio di fattibilità sui progetti, la Banca Mondiale impiegava dai cinque ai 10 anni. Ora si è capito che le infrastrutture anche in Africa si possono fare.
Lei è un convinto assertore del rapporto euro-africano.
Sì. Non dobbiamo con rassegnazione accettare che l’Africa si costituisca in una logica post occidentale perché sono rapporti (culturali, linguistici) che durano da secoli e perché c’è una vicinanza geografica tra Europa e Africa. Bisogna evitare la deriva dei continenti che io intravedo. C’è necessità dell’affermazione di un rapporto euro-africano. Penso che sia di reciproco interesse, dell’Africa e dell’Europa. A condizione che gli europei siano in grado di proporre una qualità relazionale diversa tra loro e gli africani. Dobbiamo metterci alle spalle i modelli e gli atteggiamenti coloniali e neocoloniali. Per fare questo, c’è bisogno di una decodificazione della memoria collettiva tra europei e africani. Perché se non si fa l’economia della decodificazione della memoria, non si è in grado di ricodificare i rapporti di tipo nuovo.
Questa è la grande scommessa, secondo me, tra Europa ed Africa: ricodificare il passato, guardarlo in faccia come un tempo finito di sofferenza, di missioni, di sfruttamento, ma nello stesso tempo essere in grado di ricodificare relazioni diverse. Se saremo in grado di fare questo, l’Africa continuerà ad avere questo atteggiamento di multi allineamento funzionale con vari partner come il Medio Oriente, la Turchia, la Cina. E, perché no, anche con l’Europa, se si iniziano ad avere rapporti rivisitati.
Si riferisce anche al tema dell’immigrazione?
Certo. Non possiamo immaginare di avere un rapporto diverso con l’Africa, non predatorio (con tutta la retorica che stiamo sviluppando in questi giorni) e voler entrare in contatto con il continente ignorando e maltrattando gli africani. Questo, secondo me non passa e non passerà. La relazione tra Europa e Africa passa anche attraverso il modo in cui guardiamo agli africani in carne e ossa, che vivono con noi, oltre al dovere di memoria che prima ho evocato. Le politiche di immigrazione, con la fortezza che si sta costituendo in Europa, sono raccontate in Africa. E rischiano di creare un solco, che può essere irreversibile. Non ne abbiamo bisogno. Se crediamo nel rapporto euro-africano, bisogna avere il coraggio di un salto di qualità relazionale.
La narrazione sugli immigrati, sugli africani non aiuta, perché arriva agli africani, che sanno che l’Europa non li vuole. Oppure che, ipocritamente, vuole le loro ricchezze, vuole scambiare economicamente e commercialmente con loro. Però è difficile volere l’Africa senza gli africani. Tra quello che si sta ignorando dell’Africa, c’è anche la produzione culturale poderosa del continente che la diaspora sta riecheggiando nelle piazze europee, come Parigi e Roma, e negli Stati Uniti. La diaspora africana può avere un ruolo importante.
Quale ruolo può avere la diaspora africana?
Può essere rivelatrice di criticità e catalizzatrice di opportunità. La produzione culturale è il luogo dove l’Africa si guarda allo specchio. E aiuta anche a svecchiare le narrazioni stereotipate sul continente. Quando si guarda all’Africa, bisogna guardare non solo al grande boom economico, alla demografia e alla giovane età (il 65% delle persone hanno meno di 25 anni), al mercato unico che si sta costituendo, ma anche alla grande produzione culturale, alla diaspora che può avere un ruolo importante, per esempio tra le due sponde del Mediterraneo.
La foto di apertura è di AP Photo/Samy Ntumba Shambuy e mostra gli scontri dei giorni scorsi a Kinshasa, con l’assalto ad alcune ambasciate. Nel corpo dell’articolo è dell’intervistato
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