Economia

Africa, le 26 donne che fanno l’impresa

Tra loro, Lilian che ha avviato la produzione di assorbenti igienici nelle zone rurali del Kenya. E Stella, che insegna come costruire micro saloni di bellezza negli slum di Nairobi. Ne abbiamo parlato con il ricercatore universitario Giacomo Ciambotti che ha vinto, con due colleghi, un premio internazionale per lo studio approfondito di questi esempi di imprenditorialità femminile in Africa

di Nicola Varcasia

Ventisei donne che fanno impresa in Africa. Negli slum di Nairobi e nelle zone più rurali del Kenya. Oppure in Uganda, Sudan ed Etiopia. Le ha incontrate Giacomo Ciambotti, ricercatore di Altis Università Cattolica, nel corso di due anni e mezzo di studi nel continente con la fondazione E4Impact. Un lavoro svolto assieme al collega Andrea Sottini e al professor David Littlewood della Sheffield University, che è stato premiato dall’Africa academy of management, gruppo di accademici e professionisti che ogni due anni organizza una conferenza internazionale dedicata allo sviluppo del management nelle aziende africane.

«Le storie di partenza sono spesso molto dolorose», spiega Ciambiotti, «parliamo di contesti di povertà assoluta, dove alla difficoltà di curare l’igiene, crescere i propri figli e vivere in modo sano si aggiungono problematiche culturali di discriminazione ed esclusione sociale». Se in una baraccopoli un uomo fa già molta fatica ad affrancarsi, per una donna rischia di diventare impossibile. Eppure, proprio in questi contesti, incontrando varie persone che sono state capaci di mettere in moto un cambiamento, è emersa la sorpresa: tra loro c’erano delle donne che ce l’hanno fatta. Non a diventare ricche o ad andarsene via, ma a costruire delle piccole imprese che rispondono a bisogni basilari per la comunità, come la produzione o l’acquisto di beni di prima necessità.

«Non contavo nulla: è una delle frasi che ci siamo sentiti ripetere molte volte da chi è stata vittima di violenze ed esclusione sociale. Alla discriminazione fisica si aggiunge infatti una componente patriarcale molto radicata, che relega le donne ai lavori domestici o allo sfruttamento e non consente loro di accedere all’imprenditorialità». Questo significa che non solo una donna non può fare nulla ma, anche quando fa qualcosa, le viene preclusa la possibilità di affrancare la sua condizione lavorando creativamente. La ricerca documenta, invece, come alcune donne siano riuscite a compiere un percorso di abilitazione e fuoriuscita dalla “trappola” e a farsi accettare nel loro contesto sociale. Gettando ben più di qualche seme nell’imprenditorialità sociale africana.

Così, Lillian – è il nome di fantasia usato nel paper accademico per tutelare la privacy – si è accorta che, proprio come lei stessa un tempo, le ragazze più giovani non solo non avevano a disposizione gli assorbenti ma che, a causa di una mancanza di educazione, usavano foglie di banana, provocando infezioni. Nelle zone rurali dove lei è vissuta si è messa dunque a fabbricare assorbenti riutilizzabili scegliendo tessuti lavabili a basso costo. Realizzando, tra mille difficoltà, un modello di impresa con una mission spiccatamente sociale e a basso impatto ambientale e al tempo stesso sostenibile economicamente. Di nuovo, viene da domandarsi come ci sia riuscita, quale sia stato il passo iniziale: «Anzitutto raggiungendo compromessi con la società e il patriarcato per poter mantenere il proprio spazio», spiega Ciambotti, «attraverso tentativi di resistenza personale andati avanti nel tempo. Nei loro racconti Lilian e le altre hanno dichiarato di dover riconoscere a se stesse ogni giorno il proprio valore nonostante venisse ripetuto il contrario».

L’altro aspetto del successo è la trasformazione: «Lilian ha capito che non ce l’avrebbe mai fatta da sola e così si è messa insieme ad altre e altri per ottenere il riconoscimento sociale. Ha creato dei piccoli centri, dei veri e propri “spazi di inclusione”, dove hanno avviato le più svariate attività di formazione per altre donne, preparandole al lavoro. Ma Lilian è partita da piccoli passi individuali, vissuti in prima persona, per poi poter fare gioco di squadra coinvolgendo gli altri».

Questo è il piccolo grande segreto che accomuna le 26 storie raccolte da Ciambotti. Come quella di Stella, ambientata a Nairobi, che ha creato un “Empowerment center” dove insegna alle donne ad aprire e gestire micro saloni di bellezza per gli slum a favore delle altre donne povere che vi abitano e che spesso arrivano da contesti di guerra da paesi limitrofi come il Sud sudan o il Congo. Già 120 di loro sono state coinvolte nel tempo in questo processo di integrazione.

Un processo in continuo divenire, che sarà oggetto anche di nuovi studi da parte del team di Altis e del suo spin off africano E4Impact, non tanto per verificare delle teorie costruite in ambito accademico, ma per rintracciare dei punti vitali dove costruire dal basso (vista anche la strutturale assenza di tanti governi locali) una socialità nuova. Da qui si spiega anche il titolo della ricerca premiata nella conferenza dell’Afam: “Come le donne imprenditrici creano il cambiamento sociale riempiendo i vuoti istituzionali: prove dall'Africa sub-sahariana”.

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