Volontariato

Afghanistan: le truppe della pace

Non c’è solo Gino Strada. In questi giorni nel Paese al centro del conflitto c'è anche la Caritas, il Cesvi, la Croce Rossa, il Coopi, Medici senza frontiere ed Intersos

di Gabriella Meroni

Silvio Tessari – CARITAS
In trincea un padre di cinque figli. Recupera l?assenza con le email

Cinquantadue anni tra dieci giorni, per un soffio Silvio Tessari non festeggiava il suo compleanno a Peshawar, e questo i suoi cinque figli non glielo avrebbero perdonato. Viso bonario e barbuto, voce cristallina che ispira allegria, Tessari ha poco dell?immagine da Indiana Jones che altri operatori umanitari acquistano sul campo. La sua esperienza nella cooperazione allo sviluppo si avvia con le prime ong italiane nella seconda metà degli anni 70, e dentro questa scelta di vita ci fa crescere la sua famiglia. Il primogenito aveva un anno e mezzo quando i coniugi Tessari si trasferirono in Ciad, lui agronomo e lei contabile, e ci rimasero dodici anni mettendo al mondo altri quattro figli. «In Africa non c?era la televisione», scherza Tessari. Dopo altre esperienze in Ruanda, Burundi e Somalia, ma con la famiglia riparata in Italia, oggi è responsabile del coordinamento degli aiuti Caritas per i profughi afghani.
Ha appena concluso una prima missione di due settimane al confine tra Pakistan e Afghanistan per monitorare la situazione, e diversamente da altri questo viaggio è cominciato con una piccola ansia familiare. «La mia famiglia è preparata a queste mie partenze. Sia io che mia moglie siamo attenti a non fare di questa scelta di vita un dramma epico. Ma questa volta, forse anche per le immagini in televisione, una mia figlia aveva paura a lasciarmi andare», racconta. «Ma i miei ragazzi sanno che se vogliamo che questo mondo diventi un posto migliore bisogna fare ognuno la sua parte: la mia è quella di andare a dare una mano a quelle popolazioni, la loro è quella di permettermi di farlo. Se fossero sbandati o ansiosi certo non potrei allontanarmi da casa».
Non è un mestiere facile quello di genitore, specie se si fa l?operatore umanitario. «La mia è una genitorialità frammentata, lo ammetto. Ma quando torno in Italia nulla mi può distrarre dai miei figli. Fortunatamente c?è mia moglie che restando con i ragazzi è il pilastro dell?unità familiare». Il dialogo tra padre e figli si fonda su piccole accortezze: «Sentirsi spesso per telefono o via email, e scrivere le lettere personalizzate per ognuno di loro. È una forma di vicinanza per cui occorre molta concentrazione. Ricordo i disegni che dalla Somalia inviavo ai più piccoli che non sapevano leggere».
E ora, mentre sul ?fronte interno? si gestiscono le diverse forme di crisi adolescenziali dei figli, che oggi hanno dai 14 ai 22 anni, contemporaneamente si apre il fronte esterno dell?Afghanistan. «L?attacco militare era l?unica alternativa? Io non ne sono convinto. So però che il modo in cui i musulmani guarderanno agli occidentali dopo le bombe, specie negli Stati arabi che hanno appoggiato gli Usa, dipende da come sapremmo prenderci cura dei civili». La responsabilità di aiutare è immensa, e Tessari la sente tutta. «A costo di essere giudicato un utopista, io desidero creare dei ponti tra le persone e tra le culture, nella misura in cui è possibile e l??altro? non si senta offeso da questo. So che non è facile. Un detto burundese insegna che se uno vuole fare un ponte per due tribù nemiche si ricordi che verrà calpestato sia dall?uno che dall?altro. Ma tu invece devi tenere duro perché se cedi, crolla il ponte», confida questo figlio del Carso che cita proverbi africani. «Per creare ponti ci vuole fatica e soprattutto pazienza. Ogni volta mi stupisco di come dall?altra parte ci sia sempre chi tende a interpretare i tuoi sforzi come un?aggressione o uno sfruttamento. La fatica è anche nel far comprendere le buone intenzioni», conclude ispirandosi a un altro motto, questa volta afghano, che recita così: «la pazienza è una pianta amara, ma i suoi frutti sono dolci».
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Stefano Piziali – CESVI
Quei giornalisti uccisi accanto a me

La prima cosa che Stefano Piziali ha visto dell?Afghanistan sono state tante tende grigie rattoppate con triangoli gialli. Dall?elicottero dell?Alleanza del Nord con cui il 7 novembre ha attraversato il confine tra il Tagikistan e il Paese dei Talebani, quel giallo non gli ha fatto tanta impressione. Solo il giorno dopo, quando in jeep ha raggiunto i campi profughi della zona di Taloquan, nel nord est controllato dai mujaheddin anti Talebani, si è accorto che il giallo era lo stesso delle buste di cibo lanciate dagli americani. «Gli afghani le cuciono insieme per ripararsi dal freddo», racconta dal satellitare Piziali, responsabile delle operazioni di emergenza dell?ong Cesvi. «Per il momento 150 famiglie, circa 600 persone, sopravvivono così». Per il momento perché, di notte, la temperatura non è ancora scesa sotto i cinque gradi. Ma di norma nell?inverno afghano il termometro scende a meno 25, e i kit gialli diventano inutili.
Piziali, 39 anni, due figli e una laurea in storia chiusa nel cassetto per portare l?aiuto del Cesvi nelle zone calde del pianeta (dalla Bosnia a Timor Est, dal Sudamerica all?Africa) è in Afghanistan proprio per combattere l?inverno. Con le ong Care, Shelter Now e Acted, il compito del Cesvi è infatti di fornire abiti a più di 3mila bambini afghani. «Li compriamo in Tagikistan e Cina, ma farli arrivare a destinazione non è facile. L?Alleanza del Nord, in generale, sostiene il lavoro degli operatori umanitari, ma qui intorno a Taloquan ci sono centinaia di giornalisti che aspettano di entrare a Kabul e che hanno fatto lievitare i prezzi: un interprete costa 100 dollari al giorno, una casa 1.500 dollari al mese». Quella in cui vive Stefano, insieme ad altri cooperanti, per esempio, non ha l?energia elettrica. Fino all?11 novembre come vicini aveva i tre giornalisti francesi e il tedesco uccisi dai Talebani. «Sono stati un po? imprudenti», commenta Stefano, «qui la situazione è in continua evoluzione. Ed è difficile riconoscere le bande di Talebani da quelle dell?Alleanza del Nord che non ostacolano gli aiuti umanitari. Speriamo che dopo la caduta di Kabul l?Afghanistan non diventi sempre più simile alla Somalia».
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Alberto Cairo – CRI
Il dottore che è diventato leggenda

Ci sono italiani che amano l?Afghanistan. Ma pochi possono dire di esserne innamorati come Alberto Cairo, capo del programma ortopedico del Comitato internazionale della Croce rossa (Cicr). Piemontese, da dodici anni in Afghanistan, costretto a malincuore ad abbandonare la ?sua? Kabul dopo l?11 settembre, Cairo oggi lavora all?ospedale di Sherkat. Ed è uno degli umanitari più amati e rispettati. Nel laboratorio dell?ospedale Cairo fabbrica protesi per gli amputati dalle mine di tutte le guerre. E pur di aiutarli, ricava i piedi artificiali dalla gomma dei pneumatici dei blindati russi abbandonati. Cairo basa la propria gloria afghana su un?idea vincente: gli amputati sono i protagonisti dei programmi terapeutici. Così, per aiutarli, nei suoi ospedali medici, infermieri e pazienti sono tutti invalidi. Un sistema che presenta solo vantaggi, spiega Cairo, perché annulla la barriera tra l?operatore sano e l?amputato, e fa crescere la voglia di guarire. Quanto a lui, dopo 12 anni di Afghanistan non è certo stanco. E ai giornalisti che lo vanno a trovare ripete: «Da qui non me ne andrò mai. No, non riuscirei ad abbandonare questo popolo».
www.cri.it
tel. 06.42010104
per donazioni: ccp n. 300004 intestato a Croce rossa italiana
Via Toscana 12 – 00187 Roma

Carlo Tarditi – COOPI
Un veterano che sa ancora stupirsi

I veterani dell?emergenza sono tornati in campo. Non vi è termine più appropriato, in tempi di guerra, per definire i volontari di Coopi- Cooperazione internazionale già presenti in Afghanistan e Pakistan per affrontare l?emergenza profughi. Il loro compito sarà quello di gestire una quindicina di campi vicino a Peshawar, dove è dislocata la sede logistica, e due in Afghanistan a Herat e Mazar-i-Sharif. Ecco i nomi: Carlo Tarditi, coordinatore; Paolo Marzagalli, amministratore; Roberta Lasorella, responsabile attività in Tagikistan; Georges Georgatos, logista; Branco Dubacik, medico; Paolo Zanfrà, esperto in water sanitation.
Presto al gruppo si aggiungerà un esperto inglese in assistenza psicosociale, Jan Clifton Everest, reduce dall?esperienza in Sierra Leone con i bambini soldato. Li potremmo chiamare tutti ?reduci?, perché diventati esperti di emergenze sul campo. In Kosovo, in Ruanda, in Congo. Paolo Zanfrà si occuperà di logistica, di gestione dell?acqua, della costruzione di acquedotti e impianti fognari. Una delle prime esigenze è rendere i campi profughi luoghi igienici. Zanfrà la sua esperienza se l?è fatta nei Balcani. In Montenegro si è occupato della riabilitazione delle infrastrutture colpite dai bombardamenti, in particolare case e scuole.
«Ora stiamo lavorando sull?informazione», ci spiega Carlo Tarditi. «Molti afghani sono entrati in Pakistan clandestinamente e si sono rifugiati in città o in vecchi campi. Per questo stiamo cercando di convincerli a recarsi nei campi organizzati, dove la vita è più decente».
In Pakistan la logistica è affidata all?Alto commissariato dei rifugiati dell?Onu, di cui Coopi è partner, mentre il lavoro lo svolgono i volontari italiani e quelli pakistani. «Suona strano dire che io sono il coordinatore»,
prosegue Tarditi. «Uno si chiede: che ci fa un coordinatore in mezzo a tanta miseria. Eppure è importante. Bisogna seguire i rapporti con le autorità e armonizzare il lavoro dei volontari. Tutto ciò è necessario anche in Afghanistan, dove gestiremo i campi, anche con dei compromessi, perché il nostro obiettivo è quello di raggiungere il maggior numero di persone possibile». In Afghanistan Coopi collaborerà con una ong locale, la Rraa-Rural rehabilitation association for Afghanistan. Nel campo in allestimento a Herat verranno impiegati otto volontari afghani e a Mazar-i-Sharif dodici. «Questa ong», spiega Tarditi, «lavora in sei province e non subisce influenze dai Taleban. Poi sono persone di alta professionalità. Possono fare analisi sulla situazione sociale meglio di quanto possiamo fare noi che arriviamo dall?estero».
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Roberto Pizzorni – MEDICI SENZA FRONTIERE
Un ex marinaio con la passione per l?avventura

Roberto Pizzorni non ne poteva più, di aspettare senza far nulla nella quiete raggelante di Ashgabadt, capitale del Turkmenistan. Non è un tipo abituato alle attese, lui. Così non gli è sembrato vero di sentire che il suo obiettivo, la città di Mazar-I-Sharif, era finalmente stata ?liberata? dai soldati dell?Alleanza del Nord, e le strade per arrivarci rese percorribili e sicure per permettere alla piccola carovana di Msf tre medici, due esperti di idraulica più lui, logista) di entrare in Afghanistan e portare soccorso alle popolazioni. «Lavoriamo solo di magazzino e di fantasia, per ora», ci aveva detto la settimana scorsa, quando era costretto a restare in Turkmenistan, e a inviare solo qualche pacco allo staff afghano rimasto sul terreno. «Ed è decisamente frustrante».
Soprattutto per uno come lui, arrivato a Medici senza frontiere dopo aver fatto un po? di tutto nella vita, e non è un modo di dire: dal marinaio, a 16 anni, su un cargo panamense, al giardiniere, all?operatore in una comunità per tossicodipendenti, al capo-cantiere in uno scavo archeologico? Una vita da romanzo, che fa un po? impressione sentir raccontata da un uomo di soli 40 anni. «Ma tutto è servito per il lavoro che faccio adesso, tutto sembrava fatto apposta», racconta Pizzorni, che così descrive la figura del logista: «Uno che organizza il lavoro degli altri, e quindi deve saper fare un po? di tutto per prevenire i problemi». Che cosa possiamo fare per aiutarvi, adesso? «Dire che questa guerra è ingiusta, e che deve finire al più presto». Inutile chiedere a Pizzorni se a Medici senza frontiere, cui è approdato tre anni fa, si senta ?arrivato?: non lo sa ancora. «Ho scelto Msf perché aiutano la popolazione che soffre, senza guardare alle bandiere», racconta. «Con loro sono stato in Sudan e poi in Agola, e ora sono qui, ai confini dell?Afghanistan. Speriamo di entrare presto». Un desiderio finalmente realizzato.
www.msf.it
tel. 06.4486921
per donazioni: ccp n. 87486007 intestato a Msf v. Volturno 58 – 00185 Roma

Fernando Termentini – INTERSOS
Il generale sminatore: perché nessuno disinnesca quelle bombe

Tecnicamente sono definite ?armi di saturazione d?area?. Micidiali come bombe a mano, potenzialmente più pericolose delle mine antiuomo. Le cluster bomb, letteralmente bombe a grappolo, sono alcune delle armi che le forze militari statunitensi sganciano durante i raid aerei sul territorio afghano. Durante le prime missioni erano confezionate con un involucro in plastica dello stesso colore di quello utilizzando per avvolgere le razioni alimentari, una distrazione riconosciuta dallo stesso Stato maggiore Usa. «Escludo che possa essersi trattato di un errore volontario», afferma Fernando Termentini, generale del genio civile in congedo, che da due anni collabora con Intersos. Esperienza ventennale nello sminamento, ha lavorato per le Nazioni unite in Kuwait, Mozambico, Bosnia. Nell?89, dopo la ritirata delle truppe sovietiche, è stato in Afghanistan per insegnare le tecniche di sminamento.
Vita: Perché dal punto di vista strategico militare vengono usate le cluster bomb?
Fernando Termentini: Questo tipo di bomba riesce con la sua potenza di fuoco a coprire in pochi secondi una vasta area. È contenuta in un dispenser da 200 pezzi, montato sotto le ali o la fusoliera di un aereo da combattimento. Gli ordigni possono essere programmati per esplodere in prossimità del bersaglio o entro 24 ore dall?impatto con il suolo. L?esplosione di una singola bomba ha un raggio di azione di 150 metri.
Vita: Quando hanno fatto la loro apparizione?
Termentini: Personalmente le ho incontrate la prima volta nel ?91 in Kuwait, al termine della guerra del Golfo. Concettualmente sono nate durante la Seconda guerra mondiale. Armi molto simili sono state impiegate anche durante i conflitti nei Balcani e in Libano. Gli unici due militari che hanno perso la vita dopo i conflitti in Bosnia e Libano sono morti proprio a causa della deflagrazione di due cluster bomb inesplose.
Vita: Chi le produce e quali eserciti le hanno in dotazione?
Termentini: Nel mondo occidentale i soli produttori sono statunitensi e britannici. Ho fatto ricerche per conoscere i nomi delle aziende, ma non sono riuscito a trovare nessun riferimento. Non so se in altre parti del mondo ci sono altri produttori. Non sono a disposizione delle forze armate italiane.
Vita: Ce ne sono di diversi tipi?
Termentini: Sì, esistono quattro tipi di cluster bomb. Ci sono quelle a frammentazione direzionale, hanno un effetto letale: quando esplodono proiettano schegge fino a 150 metri di distanza; quelle a caricamento speciale, capaci di perforare la corazza dei mezzi di combattimento; quelle incendiarie e quelle alla grafite, le meno offensive per l?uomo, utilizzate per interdire momentaneamente il funzionamento delle centrali elettriche. Lanciano delle specie di stelle filanti che si attorcigliano intorno ai fili interrompendo la corrente.
Vita: Qual è la percentuale delle cluster bomb che rimane inesplosa sul terreno ?
Termentini: Le aziende produttrici dichiarano una quota di mancato funzionamento del 5 per cento, per ogni dispenser con il carico di 200 bombe ne rimarrebbero sul terreno quindi all?incirca 10. In realtà fonti delle Nazioni unite hanno accertato sul campo una percentuale almeno quattro volte superiore. Solo in Serbia sono stati fatti circa 600 lanci; sono state quindi sganciate almeno 120mila cluster bomb. Il 20 per cento, 24mila, non sono esplose. Individuarle non è semplice perché rimangono conficcate nel terreno a 30-40 centimetri di profondità, diventando come mine antiuomo, con la differenza che queste ultime sono state concepite come armi di difesa, e al termine di un conflitto se si ha a disposizione la mappatura delle zone minate è semplice individuarle e bonificare. Le cluster bomb, invece, sono disperse casualmente.
Vita: Qual è la loro sensibilità all?urto?
Termentini: Per fare esplodere una cluster bomb è sufficiente un calcio. Inoltre hanno forme e colori accattivanti che attirano i bambini. In Kosovo, la scorsa primavera, in un mese hanno ucciso sette persone; nello stesso periodo le vittime delle mine antiuomo sono state due, ma entrate in un campo minato ben segnalato. Tra i bonificatori hanno fatto una vittima e sei feriti.
Vita: È possibile rendere le bombe inesplose inoffensive?
Termentini: I produttori potrebbero con una minima spesa inserire un congegno che disattivi le bombe rimaste al suolo. Per rendere più semplice la loro identificazione potrebbero essere cosparse di sostanze dal forte odore, che permetterebbero ai cani addestrati di individuarle con facilità.
Vita: Questi accorgimenti sono stati mai applicati?
Termentini: No.
Vita: Perché?
Il generale mi guarda, abbozza un sorriso ironico. Allarga le braccia. Ho capito. Passiamo a parlare d?altro.
/www.intersos.org
tel. 06.8537431
ccp n. 87702007 intestato a Intersos
via Nizza 154 – 00198 Roma

servizio a cura di Francesco Agresti, Barbara Fabiani,
Angelo Ferrari, Carlotta Jesi, Gabriella Meroni, Antonietta Nembri

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