Cultura
Afghanistan: le suore che resistono
Le uniche cristiane rimaste in Afghanistan durante la guerra sono state tre Piccole sorelle di Ges
Durante la guerra tre Piccole sorelle di Gesù sono rimaste in Afghanistan. Vestite con il burka e mischiate alle altre donne hanno tuttavia ottenuto di continuare la loro opera tra la gente afghana.
Riportiamo il commento di Lucetta Scaraffia – storica, scrittrice e giornalista – comparso sulla rivista “Mondo e Missione”.
“Nell?inferno del mondo – Kabul, Mogadiscio e l?Angola ? quando tutti gli occidentali se ne sono andati, anche le Ong e i missionari, convinti che non ci fosse più niente da fare, che non valesse la pena correre rischi così forti in una situazione d?impotenza, sono restate delle suore. A Kabul, anche durante la guerra, le uniche cristiane rimaste sono state tre suore appartenenti alla congregazione delle Piccole sorelle di Gesù: anche sotto i bombardamenti non hanno smesso di pregare e di curare i malati. A Mogadiscio è successa la stessa cosa: sono restate solo tre suore della Consolata, e così in Angola, Paese dilaniato da decenni di feroce guerra tribale, sono rimasti aperti due monasteri di trappiste. Sono luoghi di clausura, dedicati soltanto alla meditazione e alla preghiera, e che invece si sono trasformati in asilo per i rifugiati e ospedale per i feriti; le monache escono ogni tanto per seppellire i morti. Ma non hanno mai rinunciato, in questa situazione di emergenza che ormai dura da anni, a recitare l?ufficio sette volte al giorno, non hanno mai rinunciato alla dimensione contemplativa della loro vocazione, ma anzi hanno tratto proprio da lì la forza per affrontare gli orrori con cui devono fare i conti quotidianamente: ?senza fede non si può resistere?, dice una delle trappiste. Non è un caso che a resistere siano proprio delle donne, che sono tradizionalmente più deboli degli uomini, che corrono rischi maggiori di violenza. Non è la prima volta che questo accade nella storia delle missioni: basta leggere le strazianti lettere inviate nella seconda metà dell?Ottocento dalle comboniane rimaste in Sudan e prese prigioniere dal Mahdi, o pensare alle missionarie che hanno vissuto nascoste in Cina dopo la rivoluzione o in altri Paesi comunisti. E chissà di quante non è rimasta memoria perché sono morte dimenticate. Spesso le donne sono riuscite a fare della propria debolezza una forza: proprio perché non ricoprono ruoli istituzionali di potere si possono confondere nel tessuto della vita quotidiana, intente agli stessi lavori delle donne del posto, quasi sempre solidali con loro. Agli occhi dei persecutori le religiose appaiono meno rappresentative dell?istituzione ecclesiastica e sono viste come semplici ausiliarie, senza un vero e proprio compito di evangelizzazione. E spesso anche nelle missioni è stato così: la loro presenza è stata sottovalutata dai missionari stessi. Le religiose sono capaci di maggiore autonomia dei missionari: non hanno bisogno di qualcuno che le aiuti per i compiti quotidiani, se la cavano sempre da sole e, proprio perché svolgono le attività domestiche, entrano più intimamente in contatto con le popolazioni locali. Lavare insieme i panni al fiume, coltivare un orto, occuparsi dei bambini: sono tutte attività che le suore svolgono insieme con le donne del posto e con queste si crea una solidarietà concreta che difficilmente si cancella anche in momenti estremi. Nei casi di guerra infatti, in questi Paesi disgraziati e tormentati l?unico tessuto sociale che tiene, l?unico sul quale si può fare affidamento, è quello della vita quotidiana delle donne che giorno per giorno cercano di strappare alla rovina e alla morte i familiari. Le suore diventano così parte integrante di un popolo – come dice ancora una delle trappiste rimaste in Angola, ?rimaniamo qui perché questa è la nostra casa, la nostra gente? – e sviluppano quella capacità di resistenza tipica delle donne quando difendono la propria famiglia, la propria abitazione. Le donne si aspettano di meno e sanno donare di più, sanno che anche un piccolo gesto concreto in un momento difficile ha un valore immenso di testimonianza religiosa. Sanno che la fede si trasmette anche nella semplice condivisione del pericolo e del dolore, senza libri e senza parole”.
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