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Afghanistan, le ong rimaste dalla parte delle donne
I talebani hanno vietato lo sport per le donne. Nessuna è stata nominata ministra, potranno studiare solo separate dagli uomini. Un nuovo emirato islamico che di nuovo non ha nulla. Chi sono le ong che in Afghanistan continuano a battersi per i loro diritti? Il racconto di Pangea Onlus, Nove e Cisda
di Anna Spena
Le promesse di un Afghanistan diverso, di un governo talebano evoluto, trasformato, si sono dimostrate – e in pochi si aspettavano il contrario – inattese. Se da un lato ai talebani serve l’appoggio della comunità internazionale, dall’altro, invece, il governo non sta facendo nessuno sforzo per celare la sua vera natura. E infatti il nuovo emirato islamico (che di nuovo non ha niente), stando alle prime dichiarazioni, doveva essere inclusivo, invece è una lista di nomi noti, ricercati, ex detenuti. Hibatullah Akhundzada, sarà il capo supremo. Il mullah Mohammad Hassan Akhund, nella lista dei terroristi internazionali dell’Onu, è stato nominato capo ad interim del consiglio dei ministri. Sirajuddin Haqqani è stato nominato ministro dell’Interno, sulla sua testa l’fbi ha messo una taglia di 5 milioni di dollari.
Che ne sarà delle popolazione dove già all’inizio del 2021, 18,4 milioni cittadini afghani avevano bisogno di assistenza umanitaria? Che ne sarà delle donne soprattutto? Per loro il governo ha già vietato lo sport, nelle aule universitarie donne e uomini saranno divise da una tenda. Mentre le ambasciate si sono svuotate a provare a rispondere ai bisogni della popolazione c’era, ed è rimasta, la società civile. Sono le organizzazioni non governative che disegnano la geografia della speranza e si muovono tra città e zone rurali. Soprattutto chi sono quelle che continuano a battersi per le donne?
In Afghanistan Pangea Onlus, che opera a Kabul dal 2003, ha attivato un circuito di microcredito, integrato con servizi di tipo educativo e sociale, rivolto a donne. «Siamo scomodi ai talebani», racconta Luca Lo Presti, presidente dell’associazione. Pangea ha sviluppato un programma pensando a come poter inserirsi nella visione e la concezione discriminante e retrograda sul ruolo della donna nella società afghana, e ribaltarla facendo delle donne un perno dello sviluppo e del benessere all’interno della propria famiglia e quindi della comunità in cui vivono a partire dall’economia per poi arrivare ai diritti e al benessere dell’individuo. Si rivolge alle donne estremamente povere, per la maggioranza analfabete e con problemi familiari (vedove, orfane con handicap, con famiglie estremamente numerose, con mariti malati…). A queste donne viene data l’opportunità di accedere ad un microcredito che può variare da un minimo di 120 a un massimo di 500 Euro, da restituire nell’arco di un anno, per l’avvio di un’attività generatrice di reddito e di seguire un programma formativo articolato in corsi di alfabetizzazione, aritmetica, diritti umani, igiene e salute riproduttiva. «Avevamo», dice Lo Presti, «anche una scuola per bambini sordi e corsi di formazione professionale. Il progetto cambierà nelle prossime settimane, non abbiamo scelta. Non sappiamo ancora come, ma la cosa di cui siamo certi è che Pangea non abbandonerà l’Afghanistan. Al momento la nostra priorità è mettere in salvo lo staff afghano, donne che in questi anni hanno lavorato con coraggio per aiutare le donne. E che ora rischiano violenze, stupri e di essere uccise. Dobbiamo metterle in sicurezza per poter ricominciare presto ad aiutare le donne e i bambini a Kabul. Continueremo a lavorare “sotto il burqa”. Il nostro è un lavoro capillare di antenne sul territorio con i nostri contatti rimasti a Kabul ci sposteremo di casa in casa per continuare a supportare le donne».
L’associazione Nove Onlus sta preparando un’operazione di emergenza per fornire cibo e assistenza sanitaria e prevede la conversione dei minivan del Pink Shuttle, servizio di trasporto tutto al femminile realizzato a Kabul, in strutture mobili di emergenza per distribuire cibo e medicinali. Pink Shuttle era il primo e unico servizio di trasporto guidato e utilizzato esclusivamente da donne, in Dari chiamato Bano Bus (“bus delle donne”). Nella fase pilota, (maggio 2019 – marzo 2020), il progetto Pink Shuttle ha formato e assunto 4 autiste professionali, le sole in tutta Kabul. A luglio 2020 è iniziato il primo regolare servizio di trasporto a bordo di minivan, con l’assistenza di un tutor incaricato di organizzare la logistica e ridurre i rischi legati a ogni attività femminile innovativa. Le prime clienti sono state studentesse universitarie, liceali e impiegate governative: più di 100 donne, ognuna delle quali ha usufruito del servizio per un periodo minimo di 2 mesi e mezzo. Ora il progetto è temporaneamente sospeso. Nove che gestiva anche il progetto Women in Business Hub – Sono una donna e voglio lavorare, ha aperto a Kabul, in collaborazione con una ONG afghana, un Centro di Formazione Professionale Femminile che dal 2014 al 2020 ha offerto formazione gratuita e corsi di orientamento al lavoro a più di 2500 donne afghane tra i 18 e i 35 anni, fisicamente o socialmente svantaggiate. Materie insegnate: inglese (livello intermedio e avanzato), computer, cucina professionale e guida. Adesso l'associazione sta organizzando una rete di supporto e inserimento in Italia per le persone evacuate da Kabul ma non abbandona l'Afghanistan.
Non da meno il Cisda – coordinamento Italiano sostegno Donne Afghane Onlus – che ha contatti con le associazioni locali – ramificate in tutto il Paese – a favore delle donne afghane. «La "liberazione delle donne”», dicono dall’associazione, «non è stata garantita: l’87% delle donne afghane è ancora analfabeta; le donne che hanno avuto la possibilità di studiare e lavorare costituiscono un’esigua minoranza, usata dall’Occidente per dimostrare il successo dell’occupazione».
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