Mondo

Afghanistan, le nostre ong costrette alla ritirata

La vicenda Mastrogiacomo ha complicato le cose per tutti. Per di più i finanziamenti del governo nel 2006 sono tutti finiti all’umanitario gestito dall’esercito...

di Emanuela Citterio

L e conseguenze della vicenda Mastrogiacomo saranno «gravi e ampie». A dirlo a Vita è stato Alberto Cairo, direttore dell?ospedale della Croce rossa internazionale a Kabul. L?11 aprile, 38 cooperanti fra medici e infermieri, di cui 30 italiani, hanno lasciato l?Afghanistan. Era lo staff internazionale di Emergency, l?organizzazione di Gino Strada. La prima conseguenza è semplice, numerica: la presenza di cooperanti italiani in Afghanistan è ridotta al lumicino. Erano 34 prima dell?evacuazione di Emergency, ora sono quattro: due cooperanti di Cesvi, uno di Intersos, uno di Caritas Italiana. È ciò che resta della presenza italiana ?non governativa? nel Paese. C?è la Croce Rossa italiana, che nel biennio 2005-2006 ha fatto interventi per oltre 600mila euro, ma non ha personale italiano sul posto (Cairo fa riferimento a Ginevra).

Fino alla fine del 2006 c?erano altre ong italiane: Coopi, Alisei, Aispo, Gvc. Hanno costruito scuole, coordinato interventi di assistenza ai profughi, finanziato cooperative di donne con il microcredito. Coopi lo scorso dicembre ha addirittura lasciato il Paese. «Siamo stati costretti a farlo per mancanza di finanziamenti», dice Giusi Cancellieri, responsabile dei progetti in Asia. Dal 2001 al 2006 Coopi ha operato con fondi dell?Unione europea e delle agenzie delle Nazioni Unite, arrivando ad avere sette espatriati italiani responsabili di progetti di sviluppo. «Eravamo soddisfatti dei risultati», spiega la Cancellieri, «in particolare di quelli ottenuti dopo l?intervento per il disarmo di 800 combattenti in due province dell?Afghanistan, un intervento che abbiamo potuto realizzare con i finanziamenti dell?Undp». Poi tutto si è complicato. «Dal 2004 i contributi delle organizzazioni internazionali sono andati diminuendo», spiega la responsabile di Coopi. «Il governo afghano ha chiesto alle ong di registrarsi di nuovo, introducendo una procedura piuttosto lunga e complessa. Chi aveva fondi propri o finanziamenti ancora in corso è rimasto, i nostri progetti finivano a dicembre 2006, dopo di che abbiamo dovuto lasciare».

Non ci sono soldi quindi per le ong italiane? Eppure nel 2006, il ministero degli Affari esteri ha stanziato 45,2 milioni di euro per la cooperazione italiana in Afghanistan. Solo Cesvi, che opera a Mazar-I-Sharif, nel Nord, ha attivo un programma triennale coperto per il 70% da fondi ministeriali, «ma si tratta di fondi ordinari della cooperazione, un canale diverso rispetto allo stanziamento annuale in Afghanistan», spiega Gabriele Bertani di Cesvi. «I fondi della cooperazione italiana sono in gran parte utilizzati per interventi diretti», dicono dal Mae.

Ma c?è anche un altro problema. Gli esperti della cooperazione italiana della Farnesina fino a un mese fa erano nello stesso ?compound? dei militari, ad Herat. E l?aiuto era veicolato dal Provincial reconstruction team, la struttura militare che si occupa della ricostruzione.

«Le ong si sono rifiutate di operare in quel contesto, hanno scelto di tenere distinta la propria attività dalla presenza militare», spiega Nino Sergi di Intersos. «La mancanza di sicurezza, d?altra parte, rende difficile per gli operatori umanitari operare sul terreno, una situazione davvero complessa», ammette Sergi.

Gli esperti della cooperazione hanno lasciato il compound dei militari. Una commissione voluta dalla viceministra degli Esteri, Patrizia Sentinelli a metà aprile è andata a Kabul per valutare se parte dei fondi non spesi nel 2006 possono essere destinati ai progetti di sviluppo delle ong italiane. «Per il 2007 ci è stato assicurato che 10 dei 30 milioni di euro stanziati dall?Italia per la cooperazione serviranno a far riprendere i progetti di sviluppo delle ong», dice Sergio Marelli dell?Associazione delle ong italiane. «Le condizioni di sicurezza restano un problema», dice Danilo Felicetti di Caritas Italiana, che in Afghanistan opera solo con fondi privati. «Tenere un basso profilo è l?unico modo per continuare a operare direttamente fra la popolazione». Come tutte le ong, anche Caritas si affida a un?agenzia privata afghana, Anso, che garantisce la sicurezza delle sedi operative delle ong. «Con una clausola», precisa Felicetti, «niente guardie armate».


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