Mondo
Afghanistan, le ambasciate si svuotano ma la società civile resta
Già all’inizio del 2021 erano 18,4 milioni i cittadini afghani che avevano bisogno di assistenza umanitaria, il 41% dei bambini è malnutrito. Qui sono le organizzazioni non governative che disegnano la geografia della speranza e si muovono tra città e zone rurali, tra loro le due italiane Intersos ed Emergency. La prima puntata di una serie di approfondimenti sulle organizzazioni umanitarie che hanno deciso di continuare a lavorare in Afghanistan
di Anna Spena
Dopo la presa di Kabul e la proclamazione dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan, l’opinione pubblica internazionale ha riaperto, con 20 anni di ritardo, gli occhi sul Paese. Tantissimi i cittadini afghani che hanno collaborato con ong internazionali e governi e che quindi ora sono considerati ad alto rischio sotto il regine dei talebani, in pochi sono riusciti a lasciare il Paese. Ma chi oggi in Afghanistan non è a rischio? Che ne sarà dei 38 milioni di abitanti che vivono in Afghanistan? Già all’inizio del 2021 erano 18,4 i milioni di persone che avevano bisogno di assistenza umanitaria, tra cui oltre 7 milioni di minori. Oltre 10 milioni di persone vivono condizioni di grave insicurezza alimentare. L’Afghanistan ha uno dei tassi di malnutrizione più alti al mondo. Il 41% dei bambini è malnutrito e il 9,5% si trova in condizioni estreme di malnutrizione acuta severa, la forma più grave di malnutrizione, che in assenza di cure può portare rapidamente alla morte. Secondo i dati diffusi dalle Nazioni Unite circa l’80% di quasi un quarto di milione di afgani costretti a fuggire dalla fine di maggio sono donne e bambini. Quasi 400mila persone sono state costrette a lasciare le loro case dall’inizio dell’anno, unendosi a 2,9 milioni di rifugiati interni preesistenti. Così mente le ambasciate si sono svuotate a provare a rispondere ai bisogni della popolazione c’era, ed è rimasta, la società civile. Sono le organizzazioni non governative che disegnano la geografia della speranza e si muovono tra città e zone rurali. Lontano dalle scene caotiche e terrificanti dell'aeroporto di Kabul, la crisi umanitaria è in rapida evoluzione nelle strade delle città dell’Afghanistan. Due tra le ong italiane che stanno continuando a lavorare sono Emergency ed Intersos.
Emergency lavora nel Paese dal 1999 con due Centri chirurgici per vittime di guerra nelle località di Kabul e Lashkar-gah, un Centro chirurgico e pediatrico, un Centro di maternità ad Anabah, nella Valle del Panshir, e una rete di 44 Posti di primo soccorso. Nei primi quattro mesi del 2021, i suoi ospedali avevano già ricoverato 1853 pazienti vittime di guerra. Si tratta di un aumento del 202% rispetto al 2011, quando la guerra era in corso da 10 anni. «La sanità in Afghanistan», racconta Raffaela Baiocchi, ginecologa, responsabile di reparto del Centro di maternità di Anabah, «si basa per il 70% su finanziamenti internazionali. Se vanno via le ong che ne sarà delle persone?». Emergency lavora con uno staff internazionali attualmente composto da 30 persone, di cui 14 italiani. Ed uno staff locale di 378 persone a Lashkar-Gah; 545 a Kabul e 654 ad Anabah. «Nei primi giorni dopo la presa di Kabul», racconta la Baiocchi, «abbiamo vista una riduzione dei pazienti e una minima parte di riduzione del personale femminile. Nessuno sapeva cosa li aspettava fuori dalla porta, c’era un timore diffuso. Adesso i numeri stanno tornando, poco alla volta, come prima». Il centro di maternità di Anabah si trova nella valle del Panjshir: «L’unica zona del Paese», dice Baiocchi, «che non è ancora sotto il controllo dei talebani. Ci dicono ci sia uno schieramento militare ai confini della provincia. Da un lato la milizia locale, conosciuta come Alleanza del Nord, dall’altro i talebani: è impensabile pensare di lasciare il Paese».
Rimanere in Afghanistan è la priorità anche di Interos che lavora nel Paese con uno staff di 172 persone. «L’assistenza umanitaria qui non si può fermare», dice Matteo Brunelli, vice direttore Regione Afghanistan per l’organizzazione che lavora nelle regioni del Sud, in modo particolare nelle province di Kandahar e Zabul, dove il conflitto è stato particolarmente acuto dall’ultimo trimestre del 2020. «I nostri progetti sono al momento operativi, garantendo il supporto a diversi centri di salute primaria presenti nei distretti di Spin Boldak, Maywand, Shawalikot, Shahjoy, all’ospedale di Qalat e al centro di salute di Kharwaryan nella provincia di Zabul». Negli ultimi tre mesi, i due Trauma Points supportati da Intersos a Kandahar hanno prestato soccorso a centinaia di civili feriti nel corso dei combattimenti, o colpiti da mine antiuomo. Tra questi, decine di donne, bambine e bambini». I Trauma Points sono strutture sanitarie specializzate in grado di trattare i pazienti anche in caso di gravi infortuni, come traumi alla testa o lesioni interne, e di praticare operazioni chirurgiche, stabilizzando e rinviando alle strutture ospedaliere specializzate i casi che ne hanno bisogno. Dalle venti alle trenta persone al giorno vengono curate nei due Trauma Points.
«In questi mesi», spiega Brunelli, «i cittadini che hanno avuto la possibilità di scappare hanno lasciato il Paese, ma parliamo di una piccolissima percentuale di popolazione che ci è riuscita grazie a possibilità economiche o contatti con la diaspora. Ma le immagini che abbiamo visto dell’aeroporto di Kabul raccontano di un numero di persone che comunque non è rappresentativo dell’intera popolazione. Abbiamo assistito in questi mesi ad un numero ingente di popolazione che dalle periferie si spostava nelle città, è cosi cresciuto il numero di rifugiati interni. Ora che anche Kabul è stata presa sembra che il flusso inizi ad invertirsi e le persone stanno tornando verso le periferie. In molti proveranno a spostarsi nei Paesi limitrofi ma raggiungere altri Paesi significa attraversa zone dell’Afghanistan molto pericolose. Allo stato attuale i corridoi umanitari sono necessari per portare in salvo la popolazione, ma parliamo di milioni di abitanti. È quindi fondamentale discutere con le autorità legittime e con la comunità internazionale per garantire e permettere alle organizzazioni umanitarie di lavorare nel Paese. I cittadini che rimarranno in Afghanistan sono la stragrande maggioranza e non possono essere dimenticati, soprattutto adesso che i bisogni aumenteranno».
Ma la situazione in Afghanistan precipita rapidamente: «La macchina burocratica del Paese si deve rimettere in moto», spiega Brunelli, «Le banche chiuse e l’accesso alla liquidità limitatissimo, potrebbe degenerare nella sospensione delle attività. I beni importati, come le medicine, inizierebbero a scarseggiare, come anche i beni di prima necessità. L’altro aspetto riguarda l’inflazione: la moneta afghana si sta deprezzando. L’impatto a breve termine potrebbe essere un aumento del costo della vita, ma a lungo termine il Paese si ritroverebbe con molte più persone costrette a vivere sotto la soglia di povertà».
Credit foto (in ordine): Giulio Piscitelli e Carlotta Marrucci per Emergency; Intersos
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