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Afghanistan, il Panshir in mano ai talebani. Gli scontri continuano e le ong restano

La terza puntata di una serie di approfondimenti sulle organizzazioni umanitarie che hanno deciso di continuare a lavorare in Afghanistan. «Abbiamo più pazienti che posti letto disponibili», raccontano da Medici Senza Frontiere. Action Aid ha riaperto l’ufficio di coordinamento a Kabul e sta verificando i bisogni più urgenti della popolazione: cibo, alloggi, acqua sono le priorità per migliaia di persone fuggite dalle loro case. Azione Contro la Fame sta lavorando per rimettere in attività le cliniche mobili che permettono di raggiungere le persone più isolate

di Anna Spena

Il portavoce dei talebani Zabihullah Mujahid, nel corso di una conferenza stampa, ha annunciato il totale controllo della valle del Panjshir, l'ultima sacca di resistenza del Paese, da quando i talebani hanno ripreso ufficialmente il potere in Afghanistan lo scorso agosto. Ma la resistenza anti-talebana nella valle afghana del Panshir, ha reso noto che continuerà a combattere affermando di essere ancora presente in posizioni strategiche in tutta la valle. Ma tra affermazioni e smentite c’è una sola certezza: a perdere sono sempre i civili. Già all’inizio del 2021 erano 18,4 i milioni di persone che avevano bisogno di assistenza umanitaria nel Paese. Così, mentre le ambasciate si sono svuotate, a provare a rispondere ai bisogni della popolazione c’era, ed è rimasta, la società civile. Sono le organizzazioni non governative che disegnano la geografia della speranza e si muovono tra città e zone rurali. Qui – Afghanistan, le ambasciate si svuotano ma la società civile resta – la prima puntata di una serie di approfondimenti sulle organizzazioni umanitarie che hanno deciso di continuare a lavorare in Afghanistan; qui – Alberto Cairo (Croce Rossa) da Kabul: «Da qui non ce ne andremo mai» – la seconda.

Al pronto soccorso dell’ospedale provinciale di Boot a Lashkar Gah, supportato da Medici Senza Frontiere, arrivano oltre 700 pazienti al giorno. Msf continua a svolgere attività mediche a Herat, con un centro di alimentazione terapeutica ospedaliera nel reparto pediatrico; a Kandahar con un progetto per pazienti con tubercolosi resistente ai farmaci; a Khost dove gestisce un ospedale materno-infantile, e a Kunduz con un centro traumatologico. «Siamo rimasti sempre in ospedale per curare i nostri pazienti. Il 21 agosto abbiamo curato 862 persone nel pronto soccorso, penso sia il numero più alto mai registrato. Alcuni pazienti arrivano in condizioni critiche perché hanno aspettato la fine dei combattimenti», racconta un medico di MSF in azione nell’ospedale di Lashkar Gah. «Il nostro ospedale è ora pieno in termini di numero di pazienti che possiamo ricoverare. Abbiamo più di 300 persone già in cura. Abbiamo già più pazienti rispetto al numero di letti disponibili. Più pazienti riceviamo al pronto soccorso, maggiore è il problema di trovare spazio per loro all'interno dell'ospedale. Li lasciamo più tempo nel pronto soccorso, mentre cerchiamo di trovare spazio. Nel reparto pediatrico abbiamo già due pazienti per letto, ma facciamo ancora fatica a trovare spazio per tutti». A Khost, dove non ci sono stati pesanti combattimenti come in altre città «stiamo affrontando tempi difficili», dice un medico di Msf. «I mercati, i sistemi di trasporto locale e la maggior parte delle cliniche private sono chiusi. L'accesso delle persone all'assistenza sanitaria è ora molto limitato. Un singolo parto in una clinica privata può costare dai 35 ai 60 dollari statunitensi, il che sta aggiungendo ulteriore pressione alle famiglie. Le persone stanno affrontando tanta incertezza, specialmente le donne incinte. Cercano di risparmiare denaro e, poiché Msf offre i suoi servizi gratuitamente, molte donne incinte vengono nel nostro ospedale di Khost». «Quando i talebani sono entrati nelle città, abbiamo potuto continuare ad assistere i nostri pazienti. Ma le nostre strutture sanitarie iniziano ad essere piene», scrivono Christopher Stokes, Senior Humanitarian Specialist di Msf e Jonathan Whittall, direttore del dipartimento di analisi. «I nostri principi di neutralità, indipendenza e imparzialità, che a volte possono sembrare astratti, prendono vita attraverso il dialogo con tutte le parti, rifiutando finanziamenti dai governi, identificandoci con chiarezza per non essere confusi con altri gruppi che possono avere altri interessi e garantendo che i nostri ospedali siano luoghi in cui le armi non possono entrare».

Secondo i dati diffusi dalle Nazioni Unite circa l’80% di quasi un quarto di milione di afgani costretti a fuggire dalla fine di maggio sono donne e bambini. Quasi 400mila persone sono state costrette a lasciare le loro case dall’inizio dell’anno, unendosi a 2,9 milioni di rifugiati interni preesistenti. Anche Action Aid è rimasto nel Paese e, dopo qualche giorno di chiusura, ha riaperto l’ufficio di coordinamento a Kabul. L’ong sta verificando con il suo staff i bisogni più urgenti della popolazione a Mazar E Sharief, Herat e Kabul, dove cibo, alloggi, acqua, servizi igienici sono le priorità per migliaia di persone fuggite dalle tensioni nelle province circostanti.

Sudipta Kumar, direttore nazionale di ActionAid Afghanistan, spiega: «Migliaia di famiglie fuggite dai loro villaggi, sono arrivate a Kabul, Mazar e Herat con nient'altro che i vestiti sulle spalle. Le donne incinte e le neomamme sono tra coloro che hanno più bisogno di aiuti. In un campo la nostra squadra di operatori umanitari ha saputo che circa 300 famiglie condividono un solo bagno. Tende della capienza di 10 persone vengono usate in 50. Siamo profondamente preoccupati, senza un soccorso immediato le famiglie pressate nei campi sfollati sono ad alto rischio di contrarre il Covid-19, inoltre siamo di fronte all’aumento della malnutrizione e ad una probabile crisi alimentare che si aggraverà da qui ai prossimi giorni». In risposta alla crisi, ActionAid ha l’obiettivo di raggiungere 35mila persone con interventi salvavita portando derrate alimentari, acqua potabile, servizi igienici e kit d’emergenza per l'igiene personale per donne e ragazze. L'organizzazione fornirà anche un supporto di consulenza psicosociale per le persone traumatizzate e sfollate nelle ultime settimane.

In Afghanistan quasi un bambino sotto i 5 anni su 2 soffre di malnutrizione acuta e ha bisogno di cure. Nelle province di Helmand, Ghor, Daykundi e Badakhshan, i team di Azione Contro la Fame, stanno operando con l’obiettivo di rimettere in attività le cliniche mobili che permettono all’organizzazione di raggiungere le persone più isolate. «La popolazione soffre le conseguenze di un conflitto lungo più di 40 anni, oltre agli effetti del cambiamento climatico e all’impatto del Covid-19. Se la comunità internazionale volta le spalle ora, le conseguenze umanitarie saranno disastrose. Stiamo lavorando per tornare operativi il più presto possibile», ha dichiarato Simone Garroni, direttore generale di Azione contro la Fame. «Il nostro staff si sta preparando per riaccogliere i bambini e le donne incinte e in allattamento che soffrono di malnutrizione acuta grave, il cui trattamento è stato interrotto a causa della crisi. Le attività agricole, guidate dai nostri esperti in sicurezza alimentare e di sostentamento, infine, saranno pianificate nuovamente per permettere alle comunità di imparare ad essere autosufficienti sul versante del cibo e per generare, attraverso di esso, anche un piccolo reddito».

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