Politica
Affinati: «Astensione? Abbiamo bisogno di politici che lavorino come volontari»
Le elezioni amministrative consegnano un Paese in cui i partito più nutrito è quello dell'astensionismo con percentuali, 56,06%, mai viste prima, in particolare nelle periferie. «I politici cercano la maggioranza e sono schiavi del risultato. I volontari sono autentici perché se ne infischiano, credono in quello che fanno a prescindere del risultato che potranno ottenere. Abbiamo bisogno di politici che accolgano le minoranze. Persone che portino avanti idee e valori forti»
Il numero degli elettori aventi diritto che hanno disertato i ballottaggi del voto amministrativo del 17 e 18 ottobre 2021 è il 56,06%. Una percentuale altissima. Che segue per altro un trend chiaro visto che al primo turno andò a votare poco più di un italiano su due (il 54%). Per il candidato di centrosinistra Roberto Gualtieri o per quello di centrodestra Enrico Michetti (nella foto di copertina) in questo turno di elezioni municipali ha votato appena il 40,68% degli elettori (a Torino il 42,14%, meno 5.94% sulle precedenti consultazioni e a Trieste il 42%, meno 4%). Significa che nella capitale hanno scelto il sindaco meno di un milione di romani (960mila). La maggior parte di questi voti non espressi arriva dalle perferie. Stando al caso di Roma l’affluenza è sì più bassa di otto punti rispetto al 2016 ma ai Parioli vota il 56,6% degli elettori, a Tor Bella Monaca solo il 42,8. Così è successo anche a Torino e Napoli. Come si spiega? Lo abbiamo chiesto ad Eraldo Affinati, scrittore (è da poco uscito da HarperCollins il suo ultimo romanzo “Il Vangelo degli angeli”) e insegnante, fondatore della Penny Wirton, una scuola gratuita di italiano per immigrati e profondo conoscitore delle periferie della sua città.
I ballottaggi delle amministrative 2021 se possibile peggiora il dato più eclatante della tornata amministrativa: l’astensione…
Un dato che merita attenzione. L’astensione è sempre un campanello d’allarme, una ferita sanguinosa italiana. Non c’era mai stata una diserzione del genere ed è un grosso problema che chiama in causa i linguaggi della politica che spesso non vengono percepiti dalla popolazione, soprattutto dai più giovani.
Altro elemento importante è che questa astensione si è concentrata nelle periferie delle grandi città. Cosa significa?
Questo è del problema astensionismo il fattore più grave e significativo. Per fare un esempio, a Roma, nella circoscrizione di Torre Angela c’è stato l’astensionismo più alto. È un problema anche per i vincitori. Bisogna recuperare il rapporto con dei territori che vivono una grande contraddizione: qui da una parte si coagulano la rabbia sociale, il disagio, le guerre fra poveri e la difficoltà di integrazione ma dall’altra c’è il più alto numero di attività sociali e di volontariato.
Questo mostra un dato confortante: questa rabbia sociale dei margini non si sia espressa con violenza ma in modo democratico, con l’astensione al voto e la via del mutuo aiuto e dell’autorganizzazione…
Certo. Ma i nuovi amministratori dovranno capire questi fenomeni e trovare strumenti per andare incontro a queste realtà dal basso. Queste persone che si gettano sul campo con il proprio corpo presidiando le periferie devono essere chiamate dalle istituzioni ad una partecipazione attiva e reale. Cosa che non è stata fatta finora. Il senso di abbandono si sente forte oggi nei quartieri periferici. Oggi sono loro i veri rappresentanti di questi territori. Ma vivono forte, lo dico da operatore, un forte senso di impotenza e scoraggiamento. Che è all’origine di questa tensione. Guai se quello sforzo andasse perduto. La politica non può fermarsi ad interventi e coinvolgimenti formali.
Ma qual è il quadro di queste periferie?
Abbiamo quartieri con grandi palazzoni dimessi, in cui non funziona nulla. Gli ascensori guasti da anni, i parchetti abbandonati invasi dai tossici, nessun servizio. Un orizzonte desolante e desolato che non può che generare sfiducia. Ci sono poi delle persone che si mettono in gioco. È a quelle che ci si deve rivolgere.
Parlava della necessità di cambiare i linguaggi della politica. E per i contenuti di questi linguaggi?
Quando lo dico intendo di cambiare l’esperienza della realtà. Quando dico che c’è il rischio della istituzionalizzazione del volontariato intendo dire che queste esperienze periferiche non trovano mai un vero ascolto da parte delle istituzioni. Ci si limita a progetti e finanziamenti. Quando sento i politici parlare di progetti mi dispero: significa che hanno applicato un protocollo che nella migliore delle ipotesi genera cattedrali nel deserto. La biblioteca o il centro culturale e intorno c’è la droga e il disagio. Una spaccatura con la realtà che serve ricomporre.
Come?
Trovare quelle figure che facciano da ponte tra la polis e queste realtà marginali.
Questa classe dirigente è all’altezza della sfida?
No, serve evidentemente un ricambio. Questa classe dirigente non esprime la realtà dei territori. I politici dovrebbero rappresentare le realtà delle comunità. È il tema del consenso. I politici cercano la maggioranza e sono schiavi del risultato. I volontari sono autentici perché se ne infischiano, credono in quello che fanno a prescindere del risultato che potranno ottenere. Abbiamo bisogno di politici che accolgano le minoranze. Persone che portino avanti idee e valori forti.
Secondo alcuni analisti una quota di responsabilità ce l’ha anche il Governo Draghi, che pubblicizzando un modello in cui si fa gestire ad un “migliore” delegittima il processo democratico e rappresentativo. Che ne pensa?
Che fra poco vado ad insegnare italiano ad alcuni ragazzi migranti. Hanno altri problemi, altre difficoltà. A loro non interessano le grandi analisi socio-politiche, ma migliorare la propria condizione. Le analisi sono importanti. Ma in periferie bisogna guardare gli occhi delle persone e parlare di problemi e questioni vere, concrete. E magari trovare risposte. Bisogna ripartire dalle persone.
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