#Finanza&Etica

Affidiamo le chiavi della finanza alle donne e cambieremo il mondo

Più verde, meno speculativa e plurale: la visione femminile dell'economia e del business è un toccasana per la società e il pianeta. Lo dicono i numeri. Eppure questi settori sono ancora in grande misura a trazione maschile

di Anna Fasano

Se la condizione delle donne è riconosciuta come uno dei termometri principali dello stato di salute e di civiltà di un Paese, l’Italia ha ancora tanta strada da percorrere per risollevare la classifica stilata dal World Economic forum sulla partecipazione femminile alla vita economica, che ci vede al 104° posto su 146 Paesi vagliati, cioè parecchio dietro Malta, Brasile, Sierra Leone e Grecia. Questo mentre l’Europa sembra invece avere ben chiaro in mente quale miglioramento generale possa derivare dal coinvolgimento femminile nelle imprese: l’ultima direttiva Women on boards per l’equilibrio di genere nelle aziende quotate in Borsa, banche incluse, stabilisce che entro il 2026 le donne dovranno occupare il 40% dei posti di amministratore senza incarichi esecutivi e il 33% di tutti i posti di amministratore, confermando così un’attenzione ai livelli intermedi delle organizzazioni e non solamente al riequilibrio di genere nei massimi livelli dirigenziali, aspetto più visibile, che sta nel complesso migliorando in molti campi e nelle istituzioni.  

Certo, una disparità secolare, profonda e radicata non si supera in uno schiocco di dita, e il raggiungimento della parità economica, l’annullamento dell’odioso Gender Pay Gap, dovranno attendere ancora 169 anni – recentemente ce l’hanno detto persino gli spot della telefonia… -, ma le prove empiriche dimostrano che una decina di economie – soprattutto Paesi del Nord Europa – ha già colmato almeno l’80% dei propri divari di genere, mettendo così meglio a frutto il potenziale delle donne e della diversità (la sola compresenza tra donne e uomini, tra competenze, visioni e sensibilità differenti, è un fattore di crescita collettiva). Il problema è che le barriere all’ingresso e quelle interne sono ancora troppe: stando allo studio annuale Women in Business di Grant Thornton, ad esempio, nel 2022 le donne in Italia detenevano il 32% delle posizioni manageriali in azienda, contro una quota del 30% nel 2021. Per quanto riguarda le donne al vertice delle imprese, poi, la quota di quelle che occupavano la posizione di amministratore delegato (o Ceo) nel 2021 era scesa al 18%, ovvero cinque punti meno che nel 2020, a fronte del 21% di media nell’Eurozona e del 26% globale. 

Questi dati testimoniano la lentezza di un cambiamento che – quando avviene – procede comunque a singhiozzo e non riguarda tutte le filiere contemporaneamente e con modalità condivise. Così – grazie a un’indagine di Dbrs Morningstar – scopriamo che il settore della finanza in Europa stacca dati migliori rispetto a quelli appena riportati, visto che nel 2022 le donne ricoprivano il 38% delle posizioni nei CdA delle banche europee (36% nel 2021, 35% nel 2020), ma nella cosiddetta “economia reale” rimangono numerose resistenze alla trasformazione: soltanto un’attività imprenditoriale su sei è guidata in Italia da una donna, e le start-up gestite interamente da donne, pur passate dal 22 al 33% nell’ultimo anno, e più resistenti nel tempo – resilienti, come si dice -, raccolgono tuttora meno finanziamenti di quelle a guida maschile. Un aspetto, quello della minor capacità di attrarre investitori, che risulta decisivo ed evidente qui da noi e si conferma in altre aree del mondo.

Nel 2022, le aziende fondate esclusivamente da donne hanno raccolto solo il 2,1% del capitale totale investito in startup sostenute da venture capital negli Stati Uniti


Nel 2022, le aziende fondate esclusivamente da donne hanno raccolto solo il 2,1% del capitale totale investito in startup sostenute da venture capital negli Stati Uniti, mentre un’analisi del 2018 svolta dalla rete globale di acceleratori d’impresa MassChallenge mostrava che gli investimenti in aziende fondate o cofondate da donne erano stati in media di 935 mila dollari, ovvero meno della metà dei 2,1 milioni di dollari di media investiti in aziende fondate da imprenditori uomini.

Tutti questi numeri raccontano di una dinamica diffusa che va dunque ribaltata. Una dinamica di cui possiamo riconoscere alcuni germi originari seguendo un ideale percorso a ritroso nel rapporto diretto tra le donne, il denaro e la sua gestione, giungendo fino alla base di alcuni condizionamenti sociali e individuali. Una ricerca condotta da Episteme nel 2019 registrava che il 37% delle donne in Italia non possiede un conto corrente (più di una donna su tre). Secondo un’altra rilevazione pubblicata invece nel 2023 da Global Thinking Foundation, il 31,2% delle donne dipende da un partner o altro familiare, e solo il 58% ha un conto corrente intestato personalmente. Facile immaginare come dati del genere nascondano e alimentino meccanismi di esclusione che iniziano tra le mura di casa, e possono essere spia di fenomeni di natura anche peggiore: un rapporto di ActionAid del 2017 su dati ricavati dai centri antiviolenza testimoniava che il 53% del campione di donne interpellate tra quelle assistite aveva subìto anche una qualche forma di violenza economica. Nello specifico la ricerca rivelava che: 

  • il 22,6% non aveva accesso al reddito familiare; 
  • il 19,1% non poteva utilizzare i suoi soldi liberamente; 
  • il 17,6% affermava che le sue spese erano controllate dal partner; 
  • il 16,9% non conosceva l’entità del reddito familiare; 
  • il 10,8% non poteva lavorare o trovare un impiego. 

Non solo la parità contribuisce a combattere la violenza di genere, contrastando quella economica, ma le donne che si occupano del denaro, e lo gestiscono, operano con equilibrio e pensando al futuro sostenibile del Pianeta e delle comunità mediamente più degli uomini. Ce lo confermano diverse indagini recenti: ad esempio una ricerca di S&P Global sulla differenza di preparazione finanziaria, comportamenti di investimento e impressioni del mercato azionario tra donne e uomini in 11 Paesi; e poi uno studio su donne e finanza sostenibile in Italia, nel quale si constatava che, nel selezionare gli investimenti, tra le risparmiatrici prevalevano criteri di prudenza e la ritrosia al rischio (per il 59% e il 65% delle intervistate, contro un 49% e 53% degli uomini), e che i temi ambientali, sociali e di governance rivestivano una grande importanza per il 77% del campione (ben 8% in più rispetto agli uomini). Eppure nel rapporto Consob 2020 su Le scelte di investimento delle famiglie italiane emerge che solo nel 26% dei casi la donna è “decisore finanziario”, benché le donne abbiano conoscenze finanziarie simili a quelle del partner e, in conclusione, risultino mediamente come le migliori interpreti di una finanza responsabile, non speculativa e attenta agli impatti sociali e ambientali, ribaltando così quella visione machista della finanza predatoria alla Wolf of Wall Street, che guida in buona misura l’attuale un modello di sviluppo, generatore di disuguaglianza e danni agli ecosistemi. 

Finché non ci sarà tale rovesciamento della piramide, dell’immaginario e della realtà fattuale, che porti le donne a poter accedere e partecipare alla vita economica alla pari degli uomini, priveremo dunque, colpevolmente, il sistema Paese e la società globale della visione alternativa delle donne, della loro capacità di sviluppo e di rivoluzione e di crescita. Ovvero ci priveremo dell’attitudine femminile – preziosa quanto mai oggi – per una gestione del risparmio e delle aziende orientata a favorire l’impatto sociale e ambientale (si veda anche Greenitaly 2020).

Foto di Ylanite Koppens/Pexels

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