Welfare

Affari di tek in Myanmar

Nonostante le sanzioni tante aziende anche italiane continuano a trafficare con l’ex Birmania. Intervista a Cecilia Brighi, della Cisl (di Christan Benna).

di Redazione

L?ultimo gulag è un business spietato che frutta ai suoi aguzzini ben 31 miliardi di dollari l?anno. Ma è soprattutto un incubo quotidiano per oltre 12 milioni di persone costrette alla schiavitù per colpa di debiti non estinti, incarcerazioni arbitrarie o semplicemente perché risucchiate nel vortice della traffico illegale di esseri umani. A lanciare un grido d?allarme contro il dilagare del lavoro forzato è l?Ilo (International Labour Organization) che ha presentato nel centro Onu di Torino un rapporto completo sul tema. Il quadro che ne è emerso, commentato dall?autore Roger Plant, da Cecilia Brighi della Cisl e da Gioacchino Polimeri, direttore dell?Unicri (istituto Onu per la ricerca sul crimine e la giustizia), parla di uno sfruttamento economico forzato costituito per il 40% da bambini, e al 98% da donne per quello sessuale. Circa 2,5 milioni di persone sono obbligate a lavorare dallo Stato o da gruppi militari ribelli; 9,8 milioni da agenti privati. Il tutto nei quattro angoli del mondo: per lo più nelle piantagioni, nei capannoni improvvisati o nelle fabbriche di mattoni dei Paesi asiatici o latino-americani, ma anche sui marciapiedi e nelle cantine dei Paesi industrializzati. Nomi di multinazionali che vengono in contatto con questo buco nero dell?universo della delocalizzazione non ne sono stati fatti. Ma secondo Cecilia Brighi, il percorso sulla tracciabilità della supply chain inaugurato da Nike può aprire una breccia e favorire «una forma di concorrenza positiva». E&F:Dottoressa Brighi, lei parla di lavoro dignitoso per sconfiggere quello forzato, ma come arrivarci? Cecilia Brighi: La strada imboccata da Nike è un attestato di responsabilità molto importante, perché troppo spesso le imprese evitano di controllare forniture e subforniture. Ma il problema in primo luogo è politico. C?è una sorta di ipocrisia che riguarda i processi di internazionalizzazione. Non si può pensare a una vera csr quando poi nella supply chain manca del tutto la rappresentanza sindacale. In questi casi non c?è bilancio sociale che tenga. All?arrivo degli ispettori stranieri, i padroncini locali nascondono tutto il marcio. E&F: Il bilancio sociale non è un intervento positivo? Brighi: Sì, ma serve una normativa comune per distinguere tutti questi fiori che spuntano. Alcuni sono velenosi. Ci sono poi altri strumenti come quello che obbliga le imprese a rispettare le leggi internazionali del lavoro. Gli stessi incentivi per l?internazionalizzazione dovrebbero essere condizionati al rispetto delle regole. E ancora serve l?azione del Wto come il rafforzamento della cooperazione. Senza queste azioni il dumping sociale ed economico è destinato a crescere. E&F:Perché l?Ilo non si fa carico di un quadro comune per la csr? Brighi: Perché molti Paesi – soprattutto asiatici – non vogliono sentirne parlare, non gli conviene. Come non vogliono farlo le stesse imprese. Basti pensare che se si commette una violazione sulle norme che disciplinano il commercio, il processo di risoluzione dei conflitti non dura più di sei mesi. Mentre se si violano i diritti umani ci si limita a lunghe e spesso infruttifere sanzioni politiche E&F: Può fare qualche esempio? Brighi: Colombia e Birmania. Nello stato andino è in corso un processo di annientamento delle tutele sindacali, seguito alla strage di centinaia di rappresentati dei lavoratori. E il problema ancora un volta è politico, non certo degli impianti Coca-Cola colombiani dove tutti, forse per limiti ideologici, si soffermano. In Myanmar, l?ex Birmania, va ancora peggio. Perché la giunta militare si fonda sul lavoro forzato dei prigionieri, spesso nient?altro che ladri di polli o di biciclette. Si tratta di un caso limite ma drammaticamente illuminante: malgrado le pesanti sanzioni dell?Unione europea e dell?Ilo le imprese si sono ritagliate uno spazio dove poter operare. E&F: Come la Totalfina Elf? R: Esattamente. Ma non solo. Anche nel commercio del tek (con cui lavora l?italiana Margaritelli), nel settore bancario e nella industria delle pietre preziose. Quanto alla multinazionale petrolifera francese è noto che ha un appalto nella costruzione di un gasdotto birmano dove lavorano persone ridotte in stato di schiavitù. Ho avuto modo di parlare con alcuni prigionieri fuggiti dai quei lager. Finché si collabora con la giunta militare il lavoro forzato continuerà a prosperare.


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