Famiglia
Adozioni internazionali, viaggi di ritorno: farli o non farli?
Grazie anche a internet e ai social oggi un terzo degli adottati si mette in cerca dei genitori naturali. Un percorso complesso che va accompagnato. Ma non impedito. L'anteprima dell'analisi del referente scientifico Ciai, Marco Chistolini, ospitata nel numero del magazine in distribuzione
L'esperienza e gli studi hanno chiaramente mostrato che la ricerca delle origini rappresenta un tema centrale dell’esperienza adottiva. I motivi sono facilmente intuibili: sapere da chi si è nati e perché sia stato necessario cambiare la propria famiglia costituisce un’esigenza nella definizione dell’identità e per contrastare il senso di disvalore personale che l’esperienza dell’essere stati lasciati suscita. Si tratta di un tema molto importante e delicato, che investe l’essenza stessa dell’adozione: perché sono qui, perché sono diventato figlio di questi genitori e cittadino di questo Paese.
Il tema è reso ancora più attuale dall’avvento di internet e dei social network, che non solo hanno drasticamente ampliato la possibilità di reperire informazioni e rintracciare persone, ma hanno altresì trasformato la natura della ricerca: da un lato l’hanno resa più diretta, informale e apparentemente protetta (si naviga nel sicuro della propria casa) dall’altro hanno reso possibile che siano i familiari biologici a cercare il figlio/fratello/nipote andato in adozione, con la conseguenza che sempre più spesso figli e genitori adottivi vengono contattati da familiari di origine anche residenti in Paesi molto lontani.
Attualmente si stima che cerchi i familiari biologici un terzo degli adottati, ma è probabile che questa percentuale sia destinata a crescere, per iniziativa dell’uno o degli altri.
In Italia si è passati dall’idea che l’adozione dovesse costituire una “seconda nascita” che azzerava il passato alla comprensione di quanto questo atteggiamento fosse sbagliato e dannoso: conseguentemente oggi si dà una crescente attenzione alla vita pre-adottiva, aiutando i genitori ad accompagnare i figli nel confronto con le loro esperienze precedenti. Tale progressiva apertura nei confronti delle origini degli adottati, ha trovato impulso in alcuni cambiamenti introdotti dalla legge 149 del 2001 (obbligo per i genitori adottivi di informare il figlio sulla sua condizione di adottato e possibilità per l’adottato, raggiunti i 25 anni, di chiedere al Tribunale per i minorenni, l’accesso al proprio fascicolo). Grande rilevanza ha avuto la sentenza della Corte Costituzionale 278/2013, sulla necessità di trovare un maggior equilibrio tra il diritto dei genitori biologici a veder garantito il proprio anonimato e quello dell’adottato a conoscere la loro identità.
Se non vi sono dubbi sul fatto che poter accedere alla conoscenza della propria storia sia per gli adottati importante e utile, c’è da chiedersi però quale approccio alla questione sia più opportuno avere. Purtroppo l’enfasi maggiore oggi viene posta sulla dimensione del conoscere: l’identità dei genitori biologici e gli avvenimenti salienti che hanno condotto allo stato di adottabilità. È evidente che conoscere gli avvenimenti del proprio passato rappresenta un aspetto molto importante, ma credere che sia su questo piano che la questione debba essere affrontata è piuttosto semplicistico e anche rischioso. Si deve considerare, infatti, che per una persona adottata è sì ragguardevole avere informazioni sulla propria esistenza, ma ancora più rilevante è riuscire a dare un senso a ciò che gli è successo. Questa esigenza è propria di tutti gli esseri umani che, se colpiti da eventi dolorosi, cercano di dar loro un senso, ponendosi domande come “perché è accaduto?”, “Quale significato devo attribuire a tali avvenimenti?”, “Cosa dicono essi di me e del mondo?”.
Sapere, quindi, è tanto importante quanto insufficiente: capire è ciò che serve maggiormente. Avere tante informazioni senza riuscire ad attribuire loro un significato coerente, servirebbe a poco. Al contrario, è possibile dare un senso a ciò che accade anche se le informazioni che si hanno sono lacunose. Dare priorità alla comprensione della propria storia non riduce l’importanza delle informazioni, ma le colloca in una posizione subordinata dove l’attribuzione di senso guida l’interpretazione che si attribuisce ai fatti conosciuti.
Si pensi a un bambino che all’età di un anno perdesse la sua mamma in un incidente stradale: da grande questo bambino potrebbe voler conoscere la dinamica dell’incidente, il giorno e l’orario, le persone coinvolte… Ma qualcuno può credere che questi dati oggettivi sarebbero sufficienti per aiutarlo a far pace con quanto gli è accaduto? Non si chiederebbe invece “perché la mia mamma?”, “Perché proprio a me?”, in una dolorosa ricerca di senso?
Capire e dare un significato è importante perché in questo modo è più possibile, seppur sempre attraverso un percorso lungo e faticoso…
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*Marco Chistolini è referente scientifico del Centro Italiano Aiuti all'Infanzia
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