Non profit

Adozioni internazionali: «Più vicini alle famiglie nel “pre” e nel “post”»

di Benedetta Verrini

Genitori e figli, piccoli e adolescenti, ex bambini ora divenuti mamme e papà: la “famiglia” Ciai, che in questi giorni si ritrova a Cervia per l’assemblea annuale, rappresenta un po’ la migliore cartina di tornasole dell’adozione italiana. È una famiglia che vuole guardare avanti nonostante la crisi, che prende atto dei problemi del settore ma chiede di superarli. Soprattutto è una famiglia che segue parecchio i propri figli. «Perché sono tutti un po’ anche nostri», sottolinea la presidente Paola Crestani (foto piccola). Non c’è retorica nelle sue parole: di fronte a un’adozione internazionale che presenta casi sempre più complessi, il Ciai investe moltissimo nella fase post accoglienza. Al punto che parecchie famiglie che hanno adottato attraverso il canale nazionale o con altri enti chiedono la sua consulenza.
La questione del benessere dei ragazzi adottati pare uno dei temi più importanti del momento…
È vero. Conoscere, verificare la buona riuscita delle adozioni e la crescita serena dei bambini accolti è fondamentale in questo momento in cui le adozioni proposte alle famiglie riguardano sempre più “special needs”, cioè bambini più grandi, con problemi fisici o comportamentali o gruppi di fratelli.
Ma il post adozione è anche uno dei talloni d’Achille dell’adozione italiana…
Bisogna lavorare intensamente sulla fase antecedente e successiva all’accoglienza del minore, aumentando la professionalizzazione degli operatori coinvolti nella formazione delle coppie e nell’accompagnamento delle nuove famiglie.
Questo impegno rappresenta anche una voce di costo. Gli enti ce la fanno?
Non possiamo non sottolineare che oggi, in Italia, il numero degli enti è davvero eccessivo e che l’Onu ha espressamente chiesto un maggior controllo degli stessi da parte della Cai. Di recente, su mandato Ciai, l’Università Bocconi ha rilevato che i costi sostenuti dagli enti per le procedure in Italia vanno dai 6.500 agli 8.400 euro. Ci impegniamo a contenerli, ma è chiaro che per mantenere alta la qualità del servizio ed evitare di penalizzare le famiglie sarebbe necessario un finanziamento diretto degli enti, come avviene in Francia, oppure una defiscalizzazione molto più incisiva delle spese a favore delle famiglie.
Quanto avete investito nell’assistenza post adozione?
Attualmente abbiamo tre risorse a tempo pieno e dieci operatori. I colloqui di sostegno dopo l’adozione sono organizzati per tutti, anche per famiglie non Ciai. Il primo colloquio è gratuito e tenuto da psicologi e psicoterapeuti.
Come è nato il “gruppo adolescenti”?
È nato in modo del tutto informale, quattro anni fa, dopo un colloquio tra mamme che si trovavano alle prese con la complessa prova dell’adolescenza. Nel giro di un paio di mesi abbiamo organizzato un campo vacanze, coordinato e seguito da pedagogisti e psicologi, cui hanno partecipato figli adottivi e figli biologici. È stato un vero successo: hanno trovato, per la prima volta, uno spazio neutro, libero e aperto in cui parlare del loro vissuto e confrontarsi con amici che stavano vivendo la stessa situazione. Una parte di questa esperienza è stata raccolta in un documentario di Mario Garofalo, Con i nostri occhi.
Cosa emerge nei loro racconti?
I nostri ragazzi sono e si sentono italiani, ma somaticamente vengono percepiti come diversi. Sono alla ricerca di loro stessi, come tutti gli adolescenti, ma fanno i conti con una doppia identità. La scuola, per loro, rappresenta un grosso problema, perché non è preparata a farli sentire integrati nella comunità, li “misura” solo sulla base del rendimento. È vero che i nostri figli possono avere maggiori problemi, ma hanno anche un fortissimo supporto familiare. Spesso ci si focalizza sul delicato inserimento del bambino nella scuola primaria, ma in realtà è la scuola superiore il vero banco di prova. Presso il Miur è stato creato un tavolo scuola-adozione, composto dalla Cai, dalle associazioni familiari e da esperti minorili. Ci auguriamo che possa condurre a qualche progresso.
Oggi un figlio adottivo impatta emotivamente anche su una nuova realtà: i social network.
È una dimensione dirompente della ricerca di se stessi e dei rapporti con la famiglia biologica. Facebook ha azzerato i confini fisici: ci sono ragazzi che ritrovano ? o sono contattati da ? parenti residenti nel luogo d’origine. Altri rintracciano il sito o notizie dell’orfanotrofio dove hanno vissuto. Si tratta di notizie destabilizzanti, che andrebbero condivise con la famiglia e a volte anche con esperti. Non basta conoscere il proprio passato, bisogna anche essere in grado di far pace con esso.

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