Minori
Adozioni in Sierra Leone: sì alle aspettative, no al mercato
Il report della Commissione Adozioni Internazionali cita la Sierra Leone come unico segnale di speranza in un panorama nero. Avsi fa adozioni nel Paese dal 2019 e mette in guardia contro il rischio di pensarlo come luogo in cui reperire bambini “piccoli e sani”. «Per mettere al centro i bambini, l'adozione non può essere l'attività che consente all'ente la sua sopravvivenza»
di Marco Rossin
Verso la fine di gennaio, come di consueto, la Commissione Adozioni Internazionali ha pubblicato i dati e le statistiche relativi alle procedure adottive dell’anno precedente. Ad esame sono chiamati il numero di adozioni concluse e il numero di famiglie in attesa di adozione.
I dati parlano chiaro: abbiamo toccato il minimo storico in termini di minori entrati in Italia attraverso l’adozione internazionale. Questo non stupisce. I fattori sono molteplici ma di certo l’inefficacia degli interventi e l’impatto dei non interventi è lampante.
Del resto leggere questi numeri, da un po’ di tempo a questa parte, ci provoca sempre la medesima sensazione: un misto tra sconforto e abitudine, come se fossimo l’orchestra del Titanic che vede scorrere lentamente le note dello stesso spartito e si prepara a scomparire inghiottita dall’acqua gelida.
Leggere questi numeri ci provoca sempre la medesima sensazione: un misto tra sconforto e abitudine, come se fossimo l’orchestra del Titanic che vede scorrere lentamente le note dello stesso spartito e si prepara a scomparire inghiottita dall’acqua
In questa desolazione troviamo, nelle parole di commento della Commissione, un barlume di speranza proveniente da uno dei Paesi più malconci dell’Africa, la Sierra Leone. Questo Paese, oltre al curioso riconoscimento di world’s roundest country, porta con sé una storia di flagelli e devastazione che oggi si percepiscono nelle sue molteplici sfaccettature.
Era l’agosto 2019 quando per la prima volta Avsi è sbarcata a Freetown per occuparsi anche di adozioni: la presenza e il lavoro di Avsi nel Paese inizia anni prima, con un impegno stabile in termini di progettazione di interventi di educazione e protezione dei minori. A posteriori possiamo dire che non avevamo la minima idea di cosa ci aspettasse, di quanto profonde fossero le ferite del Paese e di quanto l’idea di adozione lì fosse lontana dalla nostra. La Sierra Leone ai tempi realizzava adozioni esclusivamente con Paesi anglosassoni e con la convinzione che l’adozione fosse una questione personale tra una famiglia e un avvocato locale, senza riuscire a comprendere quale dovesse essere la collocazione di un Ente autorizzato o, peggio ancora, di una ong che si sarebbe dovuta occupare di protezione dell’infanzia e non di scouting di bambini.
Da parte nostra, individuare interlocutori affidabili, rispondenti a un’etica orientata verso il superiore interesse dei minori e che potessero garantire il rispetto a norme sia legali che morali, è stato un processo durato anni e non ancora del tutto concluso. Un percorso che ha portato fatiche e sofferenze non solo a chi, in prima persona, si è ritrovato ad operare in loco per l’interesse dei minori, ma anche alle famiglie che in questa esperienza avevano deciso di lanciarsi.
Eppure, da fuori, le cose potrebbero sembrare semplici, del resto si sa: “in Africa è pieno di bambini di strada”. Nella concezione locale, la via maestra sarebbe stata la creazione di un orfanotrofio, gestito da noi in quanto Ente autorizzato, che potesse essere un bacino di minori in stato di abbandono. D’altronde, le maglie della procedura locale sono talmente ampie che non esiste tutt’oggi un reale percorso di avvicinamento e sostegno tra bambini e genitori, che tenga conto dei bisogni emotivi e relazionali di entrambi, oltre a non esserci alcun controllo su un conflitto d’interesse causato da questo tipo di gestione.
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Scegliere di seguire un’altra strada ha significato visitare e conoscere decine di strutture locali, dalle più traballanti a quelle che potevano vantare un sistema di approvvigionamento dell’acqua come servizio d’eccellenza. Ha voluto dire vedersi proporre scorciatoie e rifiutarle sempre, anche con il rischio di darsi “la zappa sui piedi”, ma consapevoli di mantenere un’integrità dovuta. Per questo, in questi quattro anni siamo riusciti non tanto a “fare numeri”, quanto piuttosto a seminare l’idea, nelle controparti locali, che l’adozione debba essere uno strumento di protezione dell’infanzia e che i bisogni del bambino debbano essere considerati prioritari rispetto a qualunque altro obiettivo o ricavo. L’adozione non può e non deve mai essere lo strumento per reperire bambini “piccoli e sani”, ma piuttosto essere dispositivo integrato ad altre attività, e che non approfitti delle carenze di un sistema di protezione estremamente debole.
L’adozione non può e non deve mai essere lo strumento per reperire bambini “piccoli e sani”, ma piuttosto essere un dispositivo integrato ad altre attività, che non approfitti delle carenze di un sistema di protezione estremamente debole
Fare scelte di questo tipo, indirizzate non al mero aumento del numero di adozioni internazionali, non è stato guidato solamente da un principio etico, ma anche dalla possibilità concreta di poterlo fare. La nostra presenza in Sierra Leone è una scelta consapevole, a prescindere dalle adozioni, ben più datata e con interventi più ampi. In questo scenario, dove l’adozione appare come l’appendice di un corpo più articolato e variopinto, si ha la possibilità di scegliere, di porsi come un soggetto a tutela dell’infanzia a 360° e non vincolando la propria presenza sul territorio alla capacità di intercettare bambini in stato di abbandono.
Probabilmente scelte diverse, di realizzazione anche più semplice, avrebbero risparmiato fatica e sofferenza a tutti: operatori e famiglie adottive. Avremmo avuto l’illusione di una realtà falsata da un mercato creato ad hoc, che deve però autoalimentarsi per sopravvivere.
Non intendiamo ovviamente porci come modello privo di difetti, il nostro impegno in questo Paese è volto anche al miglioramento continuo di ciò che passo passo stiamo costruendo: vorremmo piuttosto sollevare una riflessione sul come ci si pone nei confronti di un Paese altro, riportare la discussione non solo in termini di quantità ma anche di qualità degli interventi, qualità di cui nei canali di comunicazione ufficiale spesso non si parla.
Se vogliamo veramente pensare a come dovrebbe essere l’adozione e non lasciarla morire, dobbiamo ripensare a dove conduce il vincolo di dover fare adozioni per sopravvivere
È quasi scontato dire che si lavora per l’esclusivo interesse dei bambini, ma ogni tanto fa bene ricordarlo. Ora che la Sierra Leone pare essere diventato un modello, dovranno essere fatte delle scelte, che definiranno il destino del Paese per l’Italia. Se vogliamo veramente pensare a come dovrebbe essere l’adozione – in Italia come in Sierra Leone – e non lasciarla morire, dobbiamo ripensare a dove conduce il vincolo di dover fare adozioni per sopravvivere.
In quanto Enti autorizzati solo se non abbiamo esclusivamente l’adozione come modalità di intervento per il benessere dei minori e di sostentamento, potremo arrivare ad un nuovo modo di concepire e realizzare questo strumento di tutela dell’infanzia. Saranno quindi i prossimi anni a dirci se le scelte fatte oggi per la Sierra Leone porteranno al fiorire di un sistema di protezione dell’infanzia d’eccellenza o di orfanotrofi schiavi dell’adozione internazionale.
Foto ufficio stampa AVSI
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