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Adozioni: guida alla nuova legge (4a puntata)

La riforma delle adozioni prevede la chiusura degli istituti. «Sosteniamo le famiglie, la vera risorsa per l'accoglienza»

di Benedetta Verrini

L’articolo commentato: Art.2 Comma 2 Ove non sia possibile l’affidamento nei termini di cui al comma 1, è consentito l’inserimento del minore in una comunità di tipo familiare o, in mancanza, in un istituto di assistenza pubblico o privato, che abbia sede preferibilmente nel luogo più vicino a quello in cui stabilmente risiede il nucleo familiare di provenienza. Per i minori di età inferiore a sei anni l’inserimento può avvenire solo presso una comunità di tipo familiare. Comma 4 Il ricovero in istituto deve essere superato entro il 31 dicembre 2006 mediante affidamento ad una famiglia e, ove ciò non sia possibile, mediante inserimento in comunità di tipo familiare caratterizzate da organizzazione e rapporti interpersonali analoghi a quelli di una famiglia. Mai più orfanotrofi (sinonimi compresi) Oggi li chiamano istituti, con una sfumatura burocratico-linguistica che addolcisce un po’ i toni, ma restano quello che sono, orfanotrofi. In Italia se ne contano ancora 1.802, strutture più piccole e organizzate nelle regioni del nord, più tradizionali e affollate nel sud, che entro il 31 dicembre del 2006 dovranno chiudere “per legge” i battenti. La legge di riforma delle adozioni impone, infatti, il superamento della logica del ricovero del bambino in un istituto, e indica la strada dell’affidamento a una famiglia o, in seconda battuta, l’inserimento in comunità di tipo familiare. Gli oltre 14 mila minori che attualmente sono ospitati negli istituti saranno dunque trasferiti in realtà di accoglienza familiare, in modo che possano crescere circondati dall’affetto e con maggiori punti di riferimento. «Basta che si chiarisca cosa si intende per comunità di tipo familiare», spiega Domenico Barresi, della rete calabrese di case-famiglia legate all’associazione Papa Giovanni XXIII. «Qui in Calabria la mentalità dell’istituzionalizzazione è ancora diffusa. A Reggio c’è un istituto che ospita circa cento bambini, e che si sta organizzando per la prossima chiusura solo distribuendo i suoi piccoli ospiti in tante succursali. La tendenza generale è più per il “trasformismo” che per la trasformazione vera e propria. I grandi istituti stanno cercando di riconvertirsi in piccole realtà: si suddividono in tanti appartamenti e si definiscono addirittura case-famiglia, anche se di madri e padri non c’è nemmeno l’ombra». Il timore della mistificazione, tra i genitori che mandano avanti le comunità familiari, è molto forte. Ad aggravare la situazione è giunto un regolamento, adottato due settimane fa dal ministero degli Affari Sociali, che nel definire i requisiti minimi strutturali delle strutture “a ciclo residenziale o semiresidenziale”, equiparava le comunità di tipo familiare ai gruppi appartamento. L’associazione riminese guidata da Don Oreste Benzi è insorta: «La differenza tra le comunità familiari e i gruppi appartamento è abissale», spiega Walter Martini, responsabile del servizio affidamento della Papa Giovanni XXIII. «Le prime sono caratterizzate dalla presenza di una coppia di coniugi, vere figure genitoriali che garantiscono ai bambini la stabilità di un rapporto affettivo. Le comunità alloggio o gruppi appartamento invece hanno come figure di riferimento degli operatori professionali, che non abitano nella casa e si organizzano in turni, con il limite di non poter garantire una relazione affettiva stabile e continuativa. Classificare come identiche due realtà tanto differenti ci sembrava davvero tradire lo spirito della legge di riforma delle adozioni, che richiama il diritto di un bambino ad avere una famiglia». La questione, ora, sembra però essersi risolta: la ministra Livia Turco si è impegnata con Don Benzi a inserire nel regolamento la definizione di comunità di tipo familiare.La partita della chiusura degli istituti si gioca tutta, in effetti, sulle sfumature linguistiche e sugli standard edilizi e di gestione pianificati dagli Enti locali. In Lombardia, ad esempio, il numero di strutture che accolgono minori è il più alto di tutta Italia. «Ma gli istituti praticamente non esistono più», dice Luigi Franciolli, dei Servizi socio-sanitari di Milano. «Si sono tutti trasformati in piccole comunità alloggio, gestite da realtà del privato sociale e autorizzate dalla provincia. I minori accolti in queste realtà sono sotto il controllo degli assistenti sociali, che ne seguono il progetto educativo». Più difficile la situazione in Sicilia, la seconda regione per numero di minori in istituto, dove la pratica dell’affidamento è molto poco diffusa: si calcola che ci sia un bambino dato in affido ogni quattro messi in istituto. «Il fenomeno dell’istituzionalizzazione oggi è molto cambiato, si cerca di tenerlo come ultima spiaggia», spiega Laura Purpura, assistente sociale presso il comune di Palermo. «Ma ci sono ancora molti minori che vivono negli istituti: hanno quasi tutti più di sei anni e tendono ad accumulare diverse forme di disagio, perché da un lato vivono una situazione familiare dolorosa, dall’altro vengono inseriti in una struttura chiusa e spersonalizzante. Il cambiamento imposto dalla legge potrebbe risolvere questa difficile situazione, ma dovranno essere le singole amministrazioni a trovare le soluzioni migliori. In Sicilia bisognerebbe senz’altro stimolare l’istituto dell’affidamento e supportare meglio le famiglie affidatarie. Per quanto ci riguarda, i segnali che arrivano dall’amministrazione non fanno ben sperare: per il 2001 la voce di bilancio dedicata al sostegno economico delle famiglie affidatarie è passata da 800 a 300 milioni!». È proprio la strada del contributo alle famiglie affidatarie, in un regime semiprofessionale simile al “baliatico”, quella più sostenuta dagli operatori del settore. «Gli Enti locali hanno il compito di sostenere le comunità alloggio, di puntare sul loro valore sociale e sulla loro capacità di accoglienza», sostiene Martini. «Non possono imporre solo parametri strutturali: i muri non fanno una famiglia. Se si mantiene la discussione su questo livello, gli istituti si trasformeranno semplicemente in graziosi appartamenti con meno di sei utenti».


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