Famiglia

Adozioni e privacy, a chi servono tutte quelle foto?

I neogenitori sempre più spesso condividono sui social immagini con i loro bambini, ma anche dettagli relativi al luogo di accoglienza. Anche gli enti autorizzati hanno iniziato a postare foto di famiglie appena rientrate. Un modo per condividere la gioia e la bellezza dell'adozione, che però mette a rischio la privacy dei bambini. Una riflessione

di Marco Rossin

polaroid appese a un filo

Il 2024 è stato caratterizzato da un crescendo di attenzioni su un tema che, declinato nelle più svariate sfumature, tocca la questione delle origini dei bambini adottati o del rapporto che questi hanno (o possono avere) con i parenti biologici: la privacy.

Pochi giorni prima della serrata natalizia, la Commissione per le Adozioni Internazionali ha pubblicato l’esito di una ricerca che si concentrava, appunto, sull’identità culturale e sul senso di appartenenza dei minori adottati. Con la sentenza n. 183/2023 del 5 luglio dell’anno scorso (depositata in cancelleria il 28 settembre), la Corte Costituzionale si occupa invece del complesso tema della valutazione del superiore interesse del minore che viene adottato a mantenere i rapporti con i parenti entro il quarto grado. E, in ultimo, anche se non proprio di recente uscita, probabilmente molti di noi hanno avuto modo di vedere il film Il più bel secolo della mia vita, dove l’ambivalenza della cosiddetta “legge dei 100 anni” viene affrontata dal punto di vista di un diretto interessato, in maniera assolutamente piacevole e profonda.

Tutti questi spunti, con punti di vista e soggetti diversi, ruotano intorno al principio cardine della privacy del minore, dell’accesso ai dati sulla propria storia, hanno come comune denominatore l’analisi, divenuta di dominio pubblico, di tematiche profondamente intime.

Nell’era dell’esposizione ad ogni costo, non stupisce che una tematica come quella della privacy goda di tale risonanza, a ogni livello e da ogni punto di vista. Non è mia intenzione, in queste poche righe, aprire un dibattito in merito né tantomeno trovare una risposta che possa rendere giustizia a tutti gli attori in gioco; quello che vorrei provare a fare è partire dal piccolo, dalle nostre storie, e tracciare un confine che forse ha senso considerare nel quotidiano del nostro lavoro.

Il nostro lavoro ha come diretti beneficiari bambini, e questo lo sappiamo.

Il nostro lavoro ha come beneficiari bambini che solitamente sono inseriti in un sistema di protezione, il quale ha, come primo scopo, quello di tutelarli e di ristabilire alcuni loro diritti primari.

Il nostro lavoro ha come beneficiari bambini che hanno storie dai tratti comuni, come la mancanza di un ambiente familiare adeguato, qualcuno che si potesse prender cura di loro e un vissuto più o meno lungo in orfanotrofio.

Il nostro lavoro ha come beneficiari bambini che hanno dovuto aprirsi a nuovi affetti, a due sconosciuti che cercano di dargli amore, a un nuovo ambiente, completamente diverso da quello dove sono cresciuti.

Gabriela è una nostra beneficiaria, ha 11 anni, è bellissima e con tratti somatici leggermente diversi da quelli dei suoi genitori adottivi. Porta con sé una storia struggente, ma di successo per tutti: per i genitori che hanno visto coronato il loro desiderio di genitorialità, per il sistema di protezione del suo Paese che è riuscito a proteggere la bambina e, ovviamente, per l’Ente autorizzato che ha accompagnato la creazione della nuova famiglia. 

Anche José è un nostro beneficiario, ha 3 anni e dei tratti somatici evidentemente diversi da quelli dei suoi genitori adottivi. La sua storia, come per Gabriela, è una storia di enorme successo e parte da lontano. Da un Paese che diversamente da quello di Gabriela fatica a proteggere i propri bambini e dove, quindi, l’intervento di un’organizzazione umanitaria ha un più ampio raggio di intervento. Dove arrivare a trovare una famiglia per José passa attraverso quotidiane decisioni in favore di una maggior legalità, trasparenza, a discapito di facili scorciatoie.


Pure padre Mattew è un nostro beneficiario, anche se un po’ più avanti con gli anni. Lui è il direttore di un orfanotrofio, dunque non dobbiamo trovargli una famiglia, ma supportarlo nella verifica dell’effettivo stato di abbandono dei bambini che gli vengono affidati. Padre Mattew però si espone ogni giorno a rischi per la sua incolumità, trattando una tematica – ovvero l’adozione, nazionale e internazionale – che in svariate latitudini e longitudini non gode per così dire di “ottima fama”.

Nel nostro lavoro quotidiano scegliamo consapevolmente e attivamente di non dare esposizione mediatica alle storie e ai dettagli di vita di tutte queste persone. Da un lato crediamo sia nostro dovere tutelare e preservare, per quanto a noi possibile, l’incolumità di padre Mattew e dei bambini che ospita, dall’altro proviamo a rispettare quel tanto decantato diritto alla privacy e all’esposizione consapevole di due bambini che, dal canto loro, non hanno altra colpa se non quella di essere stati adottati.

Le storie di questi bambini – e spesso anche di questi adulti – sono belle, toccanti, davvero “a lieto fine”, e sono portatrici di un carico di emozioni che difficilmente si riscontra altrove… ma sono storie private e profondamente intime, e come tali dovrebbero restare.

Ogni nostro post sui social relativo a una procedura adottiva, ogni foto, ogni video, mandano sicuramente un messaggio apparente di bellezza, a volte di autocelebrazione per un lavoro portato a compimento nel migliore dei modi, ma vanno anche a ledere il diritto alla riservatezza

Ogni nostro post sui social relativo a una procedura adottiva, ogni foto, ogni video, mandano sicuramente un messaggio apparente di bellezza, a volte di autocelebrazione per “la scommessa vinta”, di un lavoro portato a compimento nel migliore dei modi, ma vanno anche a penetrare in profondità nella vita di questi bambini e a ledere di conseguenza il diritto alla riservatezza e all’autodeterminazione su cosa debba essere esposto o meno a livello mediatico. In un’epoca dove la visibilità è tutto, crediamo sia fondamentale ricordarcelo, ogni qual volta pubblichiamo volti sorridenti e somaticamente variegati sui nostri canali o su qualche vetrina virtuale.

A meno che il nostro obiettivo non sia dare evidenza di come in certi Paesi possiamo garantire il tanto ricercato “bambino piccolo e sano”, magari senza particolari investimenti su un reale sviluppo del Paese e del suo sistema di protezione, sceglieremo sempre di lasciare queste storie fuori dai circuiti mediatici.

Del resto, dopo le innumerevoli traversie che questi bambini affrontano per trovare una famiglia, meritano qualcosa di più di un quadretto familiare con uno smile appiccicato in faccia. Vivono già la loro quotidianità in un mondo in cui la loro storia è di dominio pubblico, che sia per la lingua diversa o per il colore della pelle che non coincide con quello dei genitori.

Provare a garantire loro sicurezza e riservatezza dovrebbe essere parte integrante del nostro lavoro e, perché no, della nostra sensibilità. Tanti auguri di uno stupendo 2025 quindi a Gabriela, José, Mattew, e a tutti gli altri beneficiari di cui ci divertiremo ad inventare nomi, a tutela delle loro vite private. 

Foto di Raj Rana su Unsplash

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