Mondo
adottare in Africa. Patti chiari e molta serietà
Cresce l'interesse degli enti italiani per il Continente
Nuove autorizzazioni-Paese per Costa d’Avorio, Mali e Togo. Milioni di bimbi abbandonati. E una sorpresa: le regole
per adottare sono ferree. E valgono per tutti Per parlare di adozioni in Africa bisogna mettere da parte tutti gli stereotipi. Il continente con il più alto numero di bambini abbandonati (solo in Kenya ci sono 2,4 milioni di minori senza famiglia, 443mila orfani di entrambi i genitori) è un universo di contraddizioni e sorprese. Eppure, nonostante le difficoltà, l’interesse degli enti italiani sta crescendo: fra le nuove autorizzazioni-Paese, nel 2009, si registrano la Costa d’Avorio, il Mali, il Togo. «Attribuiamo una grandissima importanza all’Africa, in termini di collaborazione e di aiuto per lo sviluppo dei più elevati standard di protezione dei minori», spiega il senatore Carlo Giovanardi, di ritorno dal Burkina Faso dove, in veste di presidente della Commissione adozioni internazionali, ha partecipato al primo Forum dell’Africa Occidentale sulle adozioni. Un evento di grande rilievo per l’intero settore, alla cui realizzazione la Cai ha contribuito anche economicamente, per facilitare l’incontro tra Paesi africani e Paesi europei (erano presenti anche le autorità centrali di Francia, Germania, Svizzera) e fare il punto sull’applicazione della Convenzione dell’Aja nel continente.
Il Burkina è il primo Paese ad averla ratificata, nel 1996, «in un quadro di grande povertà ma anche con un profondo impegno dal punto di vista sociale», dice Camilla D’Alessandro, del Ciai. «I servizi sono ben strutturati e si realizzano approfondite inchieste sociali. Certamente, qui come in tanti altri Paesi africani, per i minori c’è prima di tutto bisogno di fare cooperazione». Dal 2002 ad oggi dal Burkina sono giunti in Italia 97 bambini. Niente a che vedere con i grandi numeri del Brasile o della Federazione Russa… «I Paesi africani sono estremamente attenti al mantenimento dei figli nel loro Paese», considera Daniela Bacchetta, vicepresidente della Cai.
Un’osservazione confermata anche da Cristina Nespoli, di Enzo B, l’ente italiano che, autorizzato su 17 Paesi del continente, può definirsi “specialista” dell’Africa. «È uno dei territori in cui si lavora con la maggior formalità e ufficialità nelle procedure», dice Nespoli, che abbatte uno a uno tutti i cliché. «Non è una terra di nessuno perché, anzi, le autorità vivono con l’ansia del traffico dei bambini. E non è vero che in Africa i bimbi non vanno in adozione perché c’è la famiglia allargata che li accoglie. Le tutele familiari e le tradizioni esistono ancora, ma spesso la povertà estrema supera gli obblighi parentali e i piccoli vengono di fatto abbandonati a loro stessi». E sul crescente interesse da parte dell’Italia? «Ben vengano nuovi enti», commenta la Nespoli. «Nessuno strumento quanto l’adozione crea un ponte di conoscenza e interesse verso culture così lontane dalla nostra. Per un bambino che entra in una famiglia italiana, c’è un’intera comunità che scopre un Paese lontanissimo, che si interessa alla sua storia, che avrà per sempre a cuore la sua sorte».
Sono tanti i fronti aperti, in Africa. Le procedure adottive variano enormemente da Paese a Paese. A seconda del tipo di colonizzazione, inglese o francese, aumenta o diminuisce la discrezionalità dei giudici locali. I costi sono elevati (una media di 5-6mila euro per la sola parte all’estero). I tempi di permanenza variano da pochi giorni (Congo, Burkina Faso) a tre-sei mesi (Kenya). Infine, c’è la questione degli istituti. «Il bambino accolto in istituto vive in condizioni di salute, di alimentazione, di cura, di scolarizzazione migliori di quello che vive al di fuori», dice Nespoli. Ovviamente, l’istituzionalizzazione non è la soluzione ottimale per l’emergenza abbandono dei minori africani. Un recentissimo rapporto di Save the Children Uk ha sottolineato come gran parte dei minori istituzionalizzati ha uno o entrambi i genitori in vita. E ha sollecitato i donatori occidentali (gli interventi di Madonna in Malawi sono un esempio) e le ong a investire in progetti che coinvolgano le famiglie, più che gli istituti. «La cooperazione è uno strumento importante per costruire veri percorsi di crescita e integrazione sociale», sottolinea Luigi Negroni di Anpas. Per uno dei Paesi su cui è autorizzato, il Gambia, Anpas ha proposto «un percorso di formazione dei giudici, per l’acquisizione di standard minimi e irrinunciabili nelle prassi adottive, come la certificazione dello stato di abbandono».
Su questa stessa lunghezza d’onda, il 19 novembre AiBi ha firmato un accordo di collaborazione con il ministero per la Famiglia e l’Infanzia della Repubblica Democratica del Congo. «La nuova partnership prevede, tra l’altro, un progetto per la definizione dello status giuridico dei minori nella provincia di Kinshasa», spiega Monica Colombo, di AiBi. Un altro fronte di impegno, per l’ente, è la protezione dei “bambini stregoni”, un fenomeno diffuso dal Mali al Benin fino al Congo: è l’attribuzione ai piccoli più sfortunati, disabili, o la cui nascita è coincisa con la morte della madre o di qualcuno nel villaggio, del potere del malocchio. Il trattamento di emarginazione a essi destinato è terribile.
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