Famiglia
“Adolescenti fragili”, i rischi di una narrazione a senso unico
L’ansia, la fragilità e le fatiche degli adolescenti hanno finalmente conquistato più attenzione. Eppure, questa narrazione sta cominciando paradossalmente ad essere pericolosa. Non perché sia sbagliata: ma in quanto unica. «Stiamo spegnendo le domande esistenziali dei ragazzi, relegandole al patologico», mette in guardia Jacopo Dalai, psicologo psicoterapeuta
«Io gliel’ho detto a mamma. per me ci vuole un’esperta di paure. Perché ho una paura complicata, che ha due strati. Ho paura ma ho anche paura di dire che ho paura»: nel nuovo libro di Stefano Vicari dedicato all’ansia scolastica, Domani resto a casa, Matilde Piran della Scuola Holden dà parola così all’ansia di una ragazzina, in un racconto delicato e meraviglioso. L’ansia, la fragilità e le fatiche degli adolescenti, per fortuna dopo il Covid hanno conquistato sempre più attenzione.
Eppure, questa narrazione unica che stiamo facendo di una generazione fragile, vittima, passiva – in fin dei conti incapace a vivere – sta cominciando paradossalmente ad essere pericolosa. Non perché sia sbagliata, naturalmente: ma in quanto unica. «Non tutto è patologia», dice chiaro Jacopo Dalai, psicologo psicoterapeuta, presidente della cooperativa sociale Nivalis, che dal 2013 si occupa proprio di famiglie e adolescenti con sofferenza psichica. «Il mondo della neuropsichiatria fa bene a rivendicare l’urgenza di più spazi di cura, il diritto alla cura è fondamentale. Però se quella diventa la narrazione unica, si perde di vista tutta un’altra parte della realtà, che riguarda la stragrande maggioranza dei ragazzi e che non corrisponde per niente a quella narrazione. Una narrazione che non vede le enormi risorse che i ragazzi sono capaci di mettere in campo», afferma Dalai.
Che cosa rischiamo di non vedere? «Parlo del rischio di non comprendere l’enorme questione esistenziale che sta dietro alle domande dei ragazzi, etichettate tutte come patologiche, scivolando in una narrazione collettiva unica e semplicistica».
Il mondo della neuropsichiatria fa bene a rivendicare l’urgenza di più spazi di cura, il diritto alla cura è fondamentale. Però se quella diventa la narrazione unica, si perde di vista una parte della realtà: quella delle enormi risorse che i ragazzi sono capaci di mettere in campo
Jacopo Dalai, psicologo psicoterapeuta, presidente di Nivalis
Incontro Jacopo a Villa Mirabello, a Milano. Non ci vediamo da qualche anno, da quando lui lavorava in Arché. Ha fondato Nivalis nel 2013, insieme a un gruppo di operatori sociali e volontari che avevano incontrato la realtà di molte famiglie, toccando con mano quanto profonda fosse la sofferenza psichica dei bambini e dei ragazzi. Il primo passo di Nivalis è stata quindi l’apertura di un consultorio sperimentale convenzionato, che si trova a Villa Mirabello. La cura sta fin dall’origine nella sua mission. Da allora, Nivalis sta sperimentando diversi modelli di presa in carico di situazioni complesse: modelli flessibili che integrino in modo diverso per ogni ragazzo e per ogni famiglia le componenti cliniche, sociali e educative. Fanno anche tanta formazione e supervisione. L’ultimo progetto in cui Nivalis è impegnata è “Fattoria Pianeta Terra”, la ristrutturazione di un’antica cascina nel parco Forlanini di Milano, che accoglierà una comunità per minori fra gli 11 e i 14 anni ma anche minori stranieri non accompagnati, ragazzi e ragazze neomaggiorenni, giovani mamme con i loro bambini: sarà una comunità aperta al territorio, con laboratori professionalizzanti. Il “fine cantiere” è previsto per l’estate 2025 e anche questa – che Nivalis sta scrivendo insieme al filantropo Carlo Crocco, patron della Hublot e alla Fondazione Main Dans La Main – è una storia tutta da raccontare.
Che cosa non funziona oggi nella rappresentazione degli adolescenti che stiamo facendo?
La prima cosa è che se l’adolescenza è dipinta tutta solo come crisi e tutto come problema, gli adolescenti sono “solo” dei ragazzi da salvare. Difficilmente passa l’implicito “sono capace, posso prendere in mano la mia vita, posso fare, posso attivarmi”. E noi psicologi – proprio perché lavoriamo con famiglie e ragazzi che le vivono – sappiamo quanto siano forti le narrazioni: “la mia famiglia è sfigata”, “i miei genitori sono di un certo tipo e quindi anche io non potrò essere altro che così”. Diciamo che vediamo la pericolosità di una narrazione univoca, proprio perché abbiamo incontrato moltissime situazioni complesse.
Forse come genitori oggi più di ieri tendiamo a cercare un aiuto professionale, psicologico, dinanzi alle fatiche dei nostri figli. Da un lato è una cosa cosa positiva, dall’altro mi ha colpito aver sentito di recente una psicologa dell’emergenza “metterci in guardia” come genitori dal rivolgersi subito e preventivamente ad uno psicologo per i figli che avevano vissuto una certa esperienza traumatica: in sostanza ci ha detto “fidatevi di loro, delle loro capacità di elaborare il trauma, della loro capacità di sostenersi a vicenda e del fatto che sapranno loro chiedere aiuto, non date il messaggio che per superare un trauma ci voglia per forza un supporto specialistico”. Etichettiamo troppo tutto come patologia?
È un aspetto. Da adulti, ci stiamo rendendo responsabili di “spegnere” le domande esistenziali dei ragazzi. I ragazzi che arrivano qua portano delle domande esistenziali molto interessanti rispetto al “cosa fare della propria vita”, al che senso dare alle cose che stanno capitando, al futuro, alle scelte da fare che ovviamente generano angoscia. Spesso però io mi interrogo se queste siano così tanto domande da spazio clinico. Davvero dobbiamo connotare tutto questo come patologico, dire che queste domande possono emergere solo in ambito clinico? Solo dopo averle etichettate come “problema”? Io trovo che oggi ci sia una accelerazione rispetto all’andare a cercare un aiuto professionale perché nessun altro ambiente accoglie queste domande. Faccio l’esempio del passaggio dalla scuola superiore all’università o al mondo del lavoro: è un passaggio foriero di domande su cosa farò e chi sarò, che evidentemente ha delle risonanze emotive forti. Ma è come se oggi queste domande non avessero uno “spazio di ruminazione” prima di arrivare qua.
C’è il rischio di non comprendere l’enorme questione esistenziale che sta dietro alle domande dei ragazzi, etichettate tutte come patologiche. Oggi queste domande non hanno uno “spazio di ruminazione”
Ossia prima di essere state etichettate e incanalate nella questione del “ti serve l’aiuto di un professionista”. Che cosa ci manca allora?
Sì, culturalmente forse stiamo lanciando dei messaggi sbagliati: un ragazzo che soffre, che ha delle emozioni particolarmente struggenti, anche negative, ha per forza una psicopatologia? Io penso di no. Il fatto è che oggi ci mancano tantissimo gli “spazi intermedi” tra la famiglia e il niente. L’oratorio, lo sport, gli scout… Spazi dove i ragazzi hanno la possibilità di un incontro e di un confronto con altri coetanei ma anche con persone che abbiano rispetto a loro degli scarti generazionali minimi: questi confronti fino a qualche decennio fa consentivano di affrontare l’elaborazione di tanti temi. Gli adolescenti oggi hanno un enorme bisogno di “fratelli maggiori informali”: ce lo dicevamo poco tempo fa con don Gino Rigoldi per esempio. Oggi invece anche il mondo dello sport di base ormai è diventato un mondo di “accademie”.
Oggi ci mancano tantissimo gli “spazi intermedi” tra la famiglia e il niente. Gli adolescenti hanno un enorme bisogno di “fratelli maggiori informali”
Prima diceva che una narrazione dei ragazzi appiattita sulle fragilità e i bisogni non mette in luce le risorse che invece hanno. Quali risorse vede negli adolescenti di oggi, dal suo osservatorio?
Intanto sottolineerei che i ragazzi quando ci dicono “ascoltateci” non stanno facendo una richiesta di avallo incondizionato delle loro idee. Dietro quell’ascoltateci c’è il desiderio reale di aprire un dialogo, dove ci può anche essere un gradiente di conflitto. Abbiamo fatto centinaia di corsi sull’ascolto attivo e invece poi la narrazione generale rispetto alla “richiesta di ascolto” mi sembra sia un po’ ferma al fatto che i ragazzi chiedano adulti che dicano sempre sì. Non è affatto così. Quando arrivano qui sono contenti di discutere con me o con le mie colleghe, non è che quando finisce l’ora schizzano fuori col cellulare in mano: rimangono lì e c’è ancora voglia di parlare. A me questa apertura al dialogo con un adulto non sembra poco, la trovo una cosa molto significativa. Poi trovo che ci sia una grande capacità di elaborazione, una voglia di riflettere e una forte ricerca di valori, la consapevolezza di essere “cittadini del mondo”. E c’è molto il desiderio di una decelerazione rispetto alla frenesia di una vita fatta da mille impegni.
Spesso non è vero che c’è in famiglia una richiesta di performance così alta: il problema vero sono tutti gli impliciti che non trovano uno spazio di dialogo. Ambivalenze discutibili, che dovrebbero essere più discusse
La questione dell’essere schiacciati dall’ansia della performance quanto la vede presente?
Spesso vedo dei genitori molto preoccupati di sottolineare il fatto che non hanno la minima aspettativa rispetto al loro figlio. Forse non avere aspettative non è possibile e non sarebbe neanche un bene. Si potrebbe – tranquillamente o non tranquillamente, questo dipende dalle situazioni – esplicitare che io come genitore ho delle aspettative e ragionare insieme sul fatto che sono aperto e disponibile alle tue inclinazioni e ai tuoi desideri. “Io pensavo un’altra cosa per te, ma ragioniamo insieme. Questa potrebbe essere una cosa utile per te?”. Sono d’accordo, spesso non è vero che c’è in famiglia una richiesta di performance così alta: il problema sono più che altro tutti questi benedetti impliciti che non trovano uno spazio di dialogo. Ambivalenze discutibili che potrebbero essere un po’ più discusse.
Gli abbonati di VITA hanno già letto l’intervista a Jacopo Dalai settimana scorsa, nella newsletter Dire, fare, baciare che esce ogni martedì ed è dedicata ai temi della genitorialità, della famiglia, dell’educare. Se sei abbonato a VITA, puoi già attivare l’iscrizione alla newsletter da questa pagina. Se invece ti interessano questi temi e vuoi sostenere il lavoro di VITA, puoi abbonarti a questo link: insieme al magazine avrai accesso a tanti contenuti esclusivi come i i podcast, i focus book, le newsletter e le infografiche.
Foto Anthony Fomin, Unsplash
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