Serie tv
Adolescence, ossia la tragedia dell’orsacchiotto
Una miniserie di grandissimo successo, che ci interroga su come un bambino dalla faccia d'angelo possa diventare un assassino. E se tutti parlano di incel e mascolinità tossica, il dialogo con Filippo Mittino riporta l'accento su di noi, i genitori

Tutti la guardano, tutti ne parlano. “Un pugno nello stomaco” è la frase più ricorrente, banale ma azzeccata. Parliamo di Adolescence, la serie in quattro puntate su Netflix che si muove attorno a Jamie, un tredicenne dalla faccia da bambino, che viene arrestato all’alba nella sua cameretta, mentre dorme, con l’accusa di aver ucciso – la sera prima – una compagna di classe, Katie. Se non volete spoiler, fermatevi qui.
Filippo Mittino è psicologo e psicoterapeuta. Gira tanto nelle scuole. Nel dialogo con lui prende forma un disagio a cui non riuscivo a dare nome: quello davanti ai tantissimi commenti di genitori in lacrime davanti agli ultimi cinque minuti dell’ultima puntata della serie. Quella dell’orsacchiotto, appunto. Una reazione plastica che dice che il lutto e il dramma per noi genitori che la guardiamo non sta né nella morte di Katie né nel fatto che Jamie si sia rovinato la vita. Quelli ci interessano relativamente. Quello che davvero ci sta a cuore – e che infatti ci colpisce al cuore – è il lutto del genitore dinanzi alla perdita del suo amato bambino. Gira e rigira il problema della nostra epoca è quello lì, l’incapacità di separarci dai nostri figli bambini. Un tema che se pure non farà dei nostri figli degli assassini, comunque qualche problema glielo genera.
Mittino, prendiamola larga. Qual è l’impressione complessiva dinanzi a questa serie?
Mi resta addosso la sensazione che manchi uno sguardo d’insieme, che ricomponga i pezzi. Ogni tema viene affrontato in una puntata e per l’intera puntata si parla di un unico aspetto, scandagliandolo, fatta eccezione un po’ per il dialogo con la psicologa. Ogni puntata – ma direi anche ogni protagonista – racconta quindi un singolo pezzo di verità, senza però che questi pezzi di verità dialoghino mai fra loro: il rapporto maschi/femmine, il bullismo, l’impatto dei social sulle vite dei ragazzi, le responsabilità dei genitori… sono tutti pezzi di verità ma nella realtà queste questioni non sono slegate. Capisco la scelta di separare i temi per porre maggiore attenzione sulle singole questioni, ma poi mi resta la domanda su quale sia l’integrazione tra le parti.
Ed è un problema che questa integrazione manchi?
Secondo me sì. È vero che quando vedo un film d’autore io, come spettatore, sono chiamato sempre a “fare da me” un pezzo di sintesi. Ma qui stiamo parlando di una serie tv che vuole raggiungere – che sta raggiungendo – tantissime persone, anche adolescenti. Chi non è in grado di farlo da solo, quel “salto” in più, non lo farà mai perché nessuno lo aiuta a farlo. Così lo spettatore, che sia un genitore o un adolescente, rischia di rimanere lì con la sensazione che l’adolescenza sia inevitabilmente un’età incastrata nelle dinamiche di identificazione maschile e femminile e che quando questa cosa si inceppa l’adolescente può fare di tutto. Né si capisce, lato genitore, come andare oltre alla scoperta di aver fallito tutto: a meno di voler pensare che l’unica opzione possibile sia mettere a letto l’orsacchiotto del figlio bambino. Manca il tentativo di recupero, di una evoluzione anche solo accennata: che non è questione di dover offrire una soluzione, ma di esplicitare il fatto che ogni persona può sempre rimettersi in gioco, anche nei momenti più drammatici e traumatici della vita. Si ricorda il padre narrato da Cormac McCarthy in La strada? Quello alla fine portava il fuoco. Porta il fuoco anche se va tutto male… e lì si apre un barlume di speranza. Qui invece pare che il mondo stia finendo e il discorso si chiude lì.

E quale potrebbe essere, nella realtà, questo barlume di speranza?
Se ragioniamo sullo spiazzamento dei genitori che stanno guardando Adolescence e che molto probabilmente non si ritroveranno mai in situazioni così drammatiche… è importante mettere sul tavolo il tema delle relazioni. Nella serie non c’è nessun tentativo di ricostruzione del legame tra genitori e figlio. Ma il fatto è che quando le relazioni ci sono negate, nemmeno la nostra mente pensa più. Dobbiamo dare il messaggio invece che le relazioni affettive certamente cambiano, ma possono sopravvivere al “disastro”. Il punto è i genitori di Jamie non stanno negando solo la colpevolezza del figlio: negano a monte che lui sia diventato grande, negano che siano successe cose, in generale, nella sua vita, rispetto a quando lui era un bambino che disegnava sul tavolo della cucina con la faccia sporca di gelato. E torno alla scena dell’orsacchiotto, che per me è emblematica. Nella terza puntata vediamo Jamie messo sotto torchio dalla psicologa sulle questioni legate all’essere maschio e poi nella quarta vediamo il padre che ha in testa il bambino che disegnava e giocava a calcio e che per stare in relazione con il figlio mette a dormire il suo orsacchiotto. Ma è non è una relazione con il figlio di adesso: è fermo all’infanzia, all’idea di un figlio bambino.

Oltre a questa, c’è una scena che l’ha colpita in particolare?
Il viaggio sul furgone di papà, mamma e Lisa: un momento di serenità, nonostante tutto, gelato poi dalla telefonata di Jamie. Mi ha colpito quanto i genitori, raccontando la loro giovinezza, spingano sul fatto che Lisa sia figlia del desiderio e dell’amore. L’altro ragazzino invece di cosa è figlio? Lisa è la figlia perfetta, nata dall’amore. Jamie è il figlio che si è “inceppato”: forse c’è qualcosa di inceppato anche nella sua origine? Silvia Vegetti Finzi un tempo parlava del “figlio della notte” per introdurre il tema del figlio immaginato e della rielaborazione che un genitore deve fare rispetto al figlio reale: c’è un sogno, un’aspettativa sui figli che precedono addirittura il loro venire al mondo e che li condizionano. I ragazzi secondo me questo tema di diversità tra i due fratelli lo colgono tantissimo. L’altro tema è certamente il rapporto tra il poliziotto e suo figlio… con il fatto che pure un padre perfetto ha fatto crescere un figlio che ha enormi difficoltà nelle relazioni.
Secondo lei, quindi, ad un adolescente, cosa resta addosso?
Di certo non l’aspetto relativo all’impatto dei social: quello lo sanno già. A mio giudizio paradossalmente quello che dovrebbe essere il tema cardine della serie, resta sullo sfondo. E questo un adolescente lo sente. Il tema centrale è la violenza e come si possa passare, in un crescendo, da commenti social bullizzanti e da gesti di aggressività a gesti che provocano la morte. Questa questione di come può una persona, a volte, diventare violenta fino ad uccidere non viene approfondita, perché il discorso viene spostato su temi “più di moda” come il vivere in un modo o nell’altro l’essere maschio o femmina. Così uno rimane con il dubbio che la radice della violenza stia nell’essere maschio o femmina o nel chiudersi in cameretta…
E invece cosa fa passare una persona dall’essere aggressivo a dare la morte?
È un gioco di fallimenti narcisistici. Lo vediamo anche in tanti femminicidi, dove la narrazione dei media mette l’accento sul femminicidio ma in realtà prima c’è un uomo con ferite narcisistiche. La nostra è una società segnata da fragilità narcisistiche fortissime, per cui davanti al successo dell’altro io – che non riesco ad averlo – divento violento perché non ho altre carte da giocare. Vorrei distruggere lo specchio. È quello che succede anche a Jamie. Tra l’altro Katie, la vittima, entra pochissimo nella narrazione e non c’è nessun tentativo di farci entrare in contatto empatico con lei. Tutto è concentrato sul gesto di Jamie e sulle sue cause, ma è come se Jamie avesse rotto un oggetto e non ammazzato una persona. Per me comunque il punto è che continuare a declinare gran parte del discorso che facciamo agli adolescenti solo sulle dinamiche tra maschile e femminile è riduttivo, per due ragioni.
Quali?
Primo perché perché bypassiamo il tema cruciale dell’adolescente fragile, che può essere sia maschio che femmina. Secondo perché gli adolescenti vivono già l’identità di genere e la sessualità con mille sfumature, per loro ragionare di maschi e femmine è qualcosa che tendenzialmente va verso l’insignificante. È un approccio al tema del mondo adulto, non loro.
Una cosa positiva invece?
Il messaggio che anche un genitore si può pentire. Gli adolescenti hanno molto la convinzione che gli adulti siano dei monoliti cristallizzati, che non si mettono mai in discussione.
E i genitori? Quali stimoli di riflessione si dovrebbero portare a casa?
Gli adulti e i genitori, invece, penso che da Adolescence possano imparare molte cose. A cominciare appunto da quanto i social amplifichino certe dinamiche, quanto pesino con il loro giudizio. Sono cose che sappiamo, ma di cui non sempre riusciamo a cogliere l’impatto emotivo reale: tendiamo a minimizzarlo. Qui invece si capisce bene.

E con il tema della colpa, come la mettiamo?
Chiamiamola responsabilità. Dobbiamo tornare e dirci che crescere dei figli è una responsabilità. Quei genitori, Jamie se lo sono perso di vista per un lungo arco di tempo. Non hanno visto e non hanno investito sull’altro figlio che hanno messo al mondo.
Come ne usciamo?
Dobbiamo tornare a guardare molto ai nostri figli da un punto di vista umano. Siamo troppo concentrati su quante lingue parlano, quante cose sanno fare cose… li guardiamo sempre in ottica prestazionale perché questo narcisisticamente ci gratifica. Dobbiamo invece cominciare a spostare lo sguardo su temi fondamentali, cosa vuol dire star bene e stare male, chiederci perché nostro figlio sta in camera e non esce, se è soddisfatto delle sue relazioni e della sua crescita. Se loro stanno bene, siamo più contenti: ma non possiamo esimerci dall’aver uno sguardo su come stanno davvero i nostri figli adolescenti.
Sono una brava mamma? Sei una brava mamma e io sono un bravo papà. Nell’ultima puntata i genitori (bravissimi, soprattutto Stephen Graham, che oltre a recitare nella parte del padre di Adolescence ha scritto anche la sceneggiatura insieme a Jack Thorne) comprensibilmente continuano a cercare conferme su questo piano identitario. Chi è un buon genitore?
Oggi c’è troppo la tendenza a pensare che si è dei buoni genitori se il figlio è felice e non ha problemi. Ma come diceva Winnicot il tema è quello di essere genitori sufficientemente buoni, che è ben diverso dall’essere perfetti. Anzi proprio il non essere perfetti – e il lasciarlo vedere – permette al figlio di crescere con un esempio di vita realistico, che prevede la sofferenza e l’errore come variabili possibili della vita: se mi capitano, li vivo. Senza drammi. Con un genitore perfetto invece, il figlio sente di dover dare una performance altrettanto perfetta: ma se non posso esprimere il dolore e la sofferenza nella relazione con i genitori, mi tocca esprimerla in un altro modo. Magari con la violenza.
Foto dal sito di Netflix
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