Sostenibilità
«Adesso, noi emiliani siamo cambiati per sempre»
Benedetta Verrini, carpigiana e collaboratrice Vita
Sono nata e cresciuta a Carpi, 60mila cittadini piantati nel cuore della Bassa, fra Modena e Reggio, Rubiera e Cavezzo, in quelle terre d’argine che hanno sempre temuto una cosa soltanto: l’acqua del grande fiume, la piena del Secchia e del Panaro. Mai la terra, che ieri ci ha spezzati.
Nella mia strada, cinque traverse di distanza dalla piazza che noi – con un po’ di megalomania tutta emiliana – diciamo la più grande d’Europa, oggi non c’è nessuno.
Sono villette con giardino, la zona notte al piano di sopra, le petunie fucsia ai balconi, i Golden Retriever che non fanno paura a nessuno al cancello. Il danno del terremoto di ieri non le ha sbriciolate, come purtroppo è accaduto tragicamente a quelle di Cavezzo. Ha messo in bilico i comignoli in pietra a vista, che sono stati transennati dai pompieri.
Però ha sbriciolato le persone. Tutti sono scappati. Nelle seconde case sull’Appennino o sulla riviera romagnola, i più fortunati. Nel parcheggio dell’ospedale, ora evacuato, quelli che devono continuare a lavorare ma non hanno il coraggio di stare a casa la notte, quando la paura ti sale alla gola.
La settimana scorsa ero a Carpi con i miei bambini e ho vissuto la prima scossa. Scioccante, ma recuperata con il piglio emiliano. La gente di nuovo in centro, di fronte al castello dei Pio fortunosamente in piedi, parlava della devastazione di San Felice, si preoccupava del tetto del nostro bel teatro, della cupola del Duomo che chiude quella meravigliosa scenografia urbana. E’ così dentro di me, la piazza di Carpi, che la tengo gelosamente come salvaschermo del computer, la cosa più bella che posso guardare prima di iniziare a lavorare.
Prima di andarmene, domenica 27, ho assistito alla cresima della mia cuginetta al cinema Corso. Il Duomo, inagibile, non poteva ospitare un momento che alcuni genitori hanno deciso di rimandare all’anno venturo, sicuri che la chiesa sarebbe stata riaperta.
Chi c’era festeggiava, era “tirato” con i bei vestiti delle nostre maglierie, quelle ancora non piegate dalla crisi. Chi c’era scherzava anche, in quel modo che solo in Emilia si capisce, in quel mondo che ancora vive di parrocchia o di partito: “Guerda, in gnudi zò sedez cesi mo’ gnanc un pret!”. Sono venute giù sedici chiese e neanche un prete. Ieri è morto don Ivan, di Rovereto Sul Secchia. Stava cercando di salvare la statua della Madonna per ringraziarla del fatto che non era morto nessuno. Sono certa che oggi anche chi aveva detto quella frase non ha più lacrime.
Ieri sono morti degli operai. Gente che lavorava sodo, come tutti in Emilia. Gente che veniva dall’altro capo del mondo e che dopo tre mesi, con quella faccia così diversa dalla nostra, aveva già i modi e la parlata carica.
Quello che ci ha tolto il terremoto, ieri, oltre alla vita, alla casa, al lavoro, è il senso più profondo del vivere in Emilia: essere gioiosi e godere delle belle cose che abbiamo. Siamo fatti così, amiamo vivere bene, stare al sicuro, andare in bicicletta, mangiare tanto. Il nostro modo di vivere è contagioso: “Come si sta bene qui!”, mi hanno sempre detto gli amici in visita.
Ora chissà quando si ritornerà a stare bene. Non riesco a pensare ai miei concittadini nelle tende, angosciati per le loro case, per i loro bambini che ieri sono stati evacuati in fretta e furia dalle scuole, traumatizzati da un’esperienza indescrivibile. Piango a pensare ai morti, alle persone senza lavoro, a tutte le cose buone della nostra terra che si perdono, dalle rocche medievali ai barili d’aceto, fino alle forme di parmigiano che ora si vendono a 8 euro al chilo, meglio svenderle che buttarle.
Domenica scorsa alcuni volontari distribuivano anche i volantini della festa dell’estate di Carpi, che si chiama la festa più pazza del mondo. “Certo che si farà!”, dicevano. Chissà se si farà. Il centro chiuso ai non residenti, gli esercizi chiusi, la città fantasma. Lo sbigottimento nel vedere le raccolte fondi per l’Emilia (per l’Emilia!), pur consapevoli che tanti di noi ne avranno bisogno, anche se dentro continuiamo a dirci “Agh pensòm nueter”, ci pensiamo noi.
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