Cultura

Addio ad Elinor Ostrom

La Nobel per l'economia nelle parole di Giulio Sapelli

di Redazione

Elinor Ostrom, la sola donna ad aver ricevuto il Premio Nobel per l’economia, è morta ieri a 78 anni. Come motivarono nel 2009 i membri del comitato per il Nobel Ostrom «ha dimostrato come i beni pubblici possono essere gestite in maniera efficace delle associazioni di utenti».  Per capire l’importanza del pensiero di Elinor Ostrom riproponiamo un passaggio dell’editoriale di Giulio Sapelli per il numero 51 di Communitas dedicato a “i beni della comunità” (qui il testo integrale). Su di lei si può leggere anche l’intervista di Carlo Borzaga rilasciata a Vita.it all’indomani dell’annuncio del Nobel (qui il link).

di Giulio Sapelli

La sua opera può riassumersi nella confutazione di uno dei paradigmi dell’“omologazione convergente”, reso manifesto anni orsono con tristezza, si potrebbe dire, ma con determinazione distruttrice da Garret Hardin, l’inventore della teoretica della «tragedy of commons». La tragedia per la quale l’altruismo è impossibile e la fraternità è un’illusione e, dunque, lo shortermism, lo stockoptionism e il modello incentivante pavloviano fanno tutti parte di un paradigma antropologico universalistico.

Se esiste un bene che non appartiene né ai privati né allo Stato – pensiamo agli usi civici, ma anche ai beni ambientali oggi molto di moda teoricamente –, la corsa inevitabile è ad appropriarsene individualisticamente e sovrasfruttarlo generando diseconomie esterne crescenti, beneficiando del possesso, ma sostenendo solo una piccola parte del costo (che si socializza inevitabilmente), dando in tal modo vita al saccheggio di tali beni: ecco l’inevitabile tragedia. L’antropologia ci ha dato tanto innumerevoli conferme quanto innumerevoli smentite di tale tesi.

La Ostrom ha fatto di più. Nella sua magistrale opera seminale, Elinor dimostra come siano innumerevoli le realizzazioni sociali grazie alle quali si può non solo evitare la degenerazione delle common properties, ma come esse siano sostenibili nel tempo e come via via possa migliorare la loro gestione comunitaria, la loro efficacia, sino a farle diventare veri e propri “beni pubblici” generativi di istituzioni atte a garantire tale sostenibilità attraverso comportamenti cooperativi che si concretano in una terza via tra Stato e mercato: la via della partecipazione democratica alla gestione, incentivata accortamente attraverso l’elaborazione di regole condivise continuamente perfezionate e protette dai free riders e dagli opportunismi più sottili.

In un Forthcoming Paper dell’università di Kent, Merk Van Vugt ha ben sintetizzato la questione: «La tragedia dei commons ha generato molta attività di ricerca nelle scienze comportamentali, dalla psicologia alle scienze politiche, dall’economia alla biologia. Ma nonostante la sua logica convincente, è stata criticata per due principali ragioni. Primo, gli scienziati che hanno studiato il problema ambientale del mondo reale hanno scoperto l’esistenza nel mondo di molti progetti comunitari di successo per la gestione delle risorse, come la manutenzione del terreno agricolo comune, il sistema d’irrigazione, le aree di pesca costiera e di lago. Anziché essere “liberi per tutti” questi commons hanno un rigido regolamento d’accesso e d’intensità d’uso. Una seconda critica fondamentale riguarda la fondatezza della premessa che gli utenti dei commons sono spinti unicamente da un interesse economico egoistico. Sebbene questo sia un motivo chiaramente importante, i recenti sviluppi teorici ed empirici della psicologia sociale, della biologia dell’evoluzione, dell’antropologia e dell’economia sperimentale indicano che gli individui non sono indifferenti al benessere degli altri, del loro gruppo o dell’ambiente naturale. I ricercatori hanno scoperto una miriade di motivi oltre all’interesse egoistico che influenza il processo decisionale nei dilemmi dei commons».

I common goods sono uno dei pilastri dell’umana vita associata in vaste aree del pianeta. Senza di essi il mercato e la società non possono esistere e solo la loro moltiplicazione può impedire il collasso sociale di cui le crisi economiche altro non sono se non una delle manifestazioni profonde. Non vi è bene pubblico più prezioso della fiducia. Non vi è serenità più realizzatrice che la semplicità dell’essere in comunità. Una serenità che supera le anemie nichilistiche e afferma le sue idee in un confronto con la politica, aiutando così la politica stessa a farsi virtù civile fondata sulla logica dell’argomentazione e sulla creazione di spazi pubblici di confronto in cui si possa difendere il molteplice dell’essere e garantire, nella libertà, lo sviluppo sociale.

qui l’articolo integrale di Communitas

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