Cultura

Addio ad Ali Farka Toure, custode della ricchezza d’Africa

Oggi i funerali in Mali del grande musicista africano. Da Radio Mali al Grammy vinto con Ry Cooder, fino al recente "In the hearth of Moon", un geloso testimone della ricchezza delle culture african

di Emanuela Citterio

«Se John Lee Hooker è i rami e le foglie, io sono le radici e il tronco. Il blues è la musica che l’America ha fatto propria senza riconoscere il suo debito verso l’Africa». Sono parole di Ali Farka Toure, il grande musicista maliano scomparso ieri a Bamako. Da Radio Mali al Grammy vinto con Ry Cooder, fino al recente “In the hearth of Moon”, la sua musica è diventata un simbolo della ricchezza culturale del continente africano. «Ali non ha disperso le doti magiche che nel suo paese sono legate alla musica: le note penetrano in profondità, toccano i nervi della vita, evocano spiriti» scriveva su Vita Enrico Barbieri in occasione della decisione di Toure ha deciso di abbandonare la musica per coltivare la sua terra, e dell’uscita di Red & Green, ripubblicazione di due fra i capolavori con cui ha iniziato a farsi conoscere in Europa. «Due monumenti naturali, come i grandi alberi dell’Africa». Ieri il ministero Maliano della Cultura ha annunciato che Ali Farka Touré è morto dopo una lunga malattia. Aveva 67 anni. Nato nel 1939 a Kanau, in Mali, ha scoperto la musica a 10 anni, imparando a suonare il gurkel, specie di chitarra a corda unica. Nel 1956, a un concerto dell’artista guineano Fodera Keita, si rende conto che la musica sarà la sua strada. Scopre e si apre al mondo della musica che lo porterà a diverse collaborazioni, fra le quali quella con Ry Cooder, “Talking Timbuctu” che gli farà vincere il Grammy nel 1995. L’anno scorso, ne ha vinto un altro, nella categoria “world music” , per la sua collaborazione con il suonatore di kora Toumani Diabaté per il loro album “In the Heart of the Moon”. La sua morte ha dato il via ad un periodo di lutto in Mali dove la regolare programmazione musicale è stata interrotta per essere sostituita dalla sua musica. I funerali si sono svolti stamattina a iafunké, il suo villaggio nella zona di Tombuctu, sulla frontiera fra Sahel e Sahara. «Toure era parecchio orgoglioso di conoscere ben nove delle lingue parlate in Africa occidentale e di portarle sempre con sé in giro per il mondo, avvolte in una canzone, un proverbio, trascinate dalla corrente dei ricordi», scrive Marco Boccito su “Il Manifesto”, che oggi dedica una pagina intera al grande musista africano e ricorda anche l’impegno civile assunto nei confronti della sua gente. «Ma oltre agli idiomi conosceva bene gli usi, le filosofie, le sfumature espressive che ci sono dietro. La disinvoltura con cui parlava e cantava il tamashek, la lingua dei Tuareg, a un certo punto ne hanno fatto anche un naturale mediatore quando, negli anni ’90, la situazione fra il governo centrale e gli “uomini blu” del nord stava pericolosamente scivolando nella guerra civile». Nella sua casa a Niafunké riceveva chiunque bussava alla sua porta. «Non bisogna essere egoisti con i propri saperi» diceva. «Anche se uno viene da un Paese ricco, qui scopre un altro concetto di ricchezza. Però non amo troppo svelare i segreti: non è consigliabile permettere a qualcuno di puntarti contro le tue stesse armi».


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