Welfare
Addio a Simon Wiesenthal
Il portavoce di coloro che non erano sopravvissuti ai campi di concentramento è morto oggi a Vienna all'età di 96 anni. Un ricordo e una scheda
di Paul Ricard
Simon Wiesenthal, un’esistenza spesa a inseguire in tutto il mondo i responsabili degli orrori nazisti, si e’ spento a 96 anni nella sua casa di Vienna. Nei 60 anni di attivita’, prima da solo poi a capo del Centro Simon Wiesenthal, porto’ alla sbarra 1.100 criminali nazisti. La notizia della morte e’ stata data dal Centro che prende il suo nome con una nota pubblicata su Internet. “Simon Wiesenthal era la coscienza dell’Olocausto” ha detto il rabbino Marvin Hier, direttore e fondatore dell’Organizzazione per i diritti umani a lui dedicato, “quando nel 1945 l’Olocausto fini’ e il mondo intero torno’ a casa per dimenticare, lui fu l’unico a voler ricordare. E non dimentico’ mai. Divenne il rappresentante permanente delle vittime, determinato a portare di fronte alla giustizia gli autori del piu’ grave crimine della storia. Quell’incarico non gli fu conferito da alcun capo di stato o primo ministro: semplicemente si assunse un compito che nessuno voleva”.
”Sono soltanto un sopravvissuto”, confessava spesso Simon Wiesenthal, ”che per quattro anni e mezzo e’ stato in diversi campi di concentramento e che ha perso l’intera sua famiglia, tranne la moglie”. ”La mia professione originaria era quella di architetto, e come tale ho costruito molte case… Ma per i primi due anni, dopo la guerra – ha raccontato sempre Wiesenthal – non potevo dormire perche’ i miei pensieri erano con le persone che erano morte. Come potevo tornare a costruire case, dato che senza giustizia non si puo’ metter su casa e famiglia? Dovevamo anzitutto ricostruire la giustizia”. Il fatto e’ che nell’immediato dopoguerra l’ancor giovane architetto credeva che ”ricostruire la giustizia” fosse questione di giorni, tutt’al piu’ di mesi. Invece si tratto’ di decenni, di una vita. A perseguire i criminali nazisti, raccogliendo testimonianze e documentazione, Wiesenthal comincio’ il 5 maggio 1945, allorche’ le truppe americane liberarono il campo di Mauthausen, in cui era detenuto all’estremo delle forze: gli alleati istituirono subito una War Crimes Section e un Ufficio di controspionaggio, e l’architetto poliglotta di Buczacz fu assunto sul posto. Per due anni lavoro’ con gli americani allo scopo di raccogliere prove di quello che fu subito chiamato ”un genocidio” ma che giuridicamente era rubricato tra i ”crimini contro l’umanita”’. Il processo di Norimberga contro gli strateghi della follia nazional-socialista aveva bisogno di prove, di testimoni, di documenti, di numeri, di cartine geografiche, di nomi e cognomi; era un crimine esteso quanto i confini dell’Europa; si doveva istituire un tribunale senza precedenti nella storia dell’umanita’. Il 20 novembre 1945 iniziarono i processi del tribunale militare internazionale, presieduto dal giudice della corte suprema americana Robert H. Jackson contro i vertici nazisti del partito e del governo tedesco, tra cui Hermann Goering, Alfred Rosenberg, Rudolph Hess, Julius Streicher, von Ribbentrop. I verdetti furono emessi il primo ottobre 1946: 12 condanne a morte, sette ergastoli, e svariate altre pene minori vennero comminate ai responsabili della macchina di morte che in 12 anni aveva causato 35 milioni di vittime in Europa e una quantita’ incalcolabile di torture e sofferenze contro innocenti. Altri processi minori vennero aperti e conclusi, spesso sbrigativamente, in altri Paesi: nella stessa Germania, in Olanda, in Francia, e nella Polonia ora ”occupata” dai sovietici. Gia’ si assisteva agli attriti iniziali della Guerra Fredda; gia’ americani e sovietici erano pronti a chiudere i conti con il passato per potersi dedicare al nuovo scontro geo-politico per il controllo del mondo. Per questo nel 1947 Wiesenthal fu licenziato. Ma il capitolo piu’ nefando della storia europea, e la tragedia piu’ grande del popolo ebraico, potevano esser chiuse cosi’ in fretta? Quanti dei responsabili di quei crimini non erano comparsi dinanzi a un tribunale e l’avevano fatta franca nascondendosi sotto falsa identita’ e fuoriuscendo da un’Europa ancora nel caos? La causa della giustizia andava aiutata: cosi’, con il sostegno di trenta volontari, l’architetto Wiesenthal apri’, nel 1947, a Linz, il ”Centro ebraico di documentazione storica”. Il suo scopo non era tanto processare i nazisti scampati al giudizio degli alleati, quanto raccogliere testimonianze dettagliate contro di loro dando modo alle vittime, ebrei e non ebrei, di esercitare il loro diritto – un diritto morale e giuridico – di accusare i propri persecutori e oppressori: ”Sopravvivere e’ un privilegio che comporta obblighi”, si legge nel suo libro ”Giustizia, non vendetta”, ”e da sempre mi chiedo cosa posso fare oggi per coloro che non sono sopravvissuti. La risposta che io ho trovato per me stesso (e che non dev’essere necessariamente valida per ogni sopravvissuto) e’ la seguente: io voglio essere il loro portavoce; voglio che la loro memoria non sia obliata; voglio in qualche modo farli rivivere in quella memoria. Perche’ la giustizia per i crimini contro l’umanita’ non ha limiti”. ioe’ tali crimini non cadono mai in prescrizione. Il bisogno di giustizia che costituisce la prima e piu’ profonda spiegazione dell’attivita’ poliedrica di Wiesenthal e’ radicato nella sua esperienza di sopravvissuto che molte volte ha visto la morte davanti a se’ e che, per una serie di incredibili circostanze fortunate, l’ha sempre scampata. La prima volta fu all’arrivo delle truppe tedesche nel ghetto di Lvov, nel giugno del 1941: tedeschi e ausiliari ucraini festeggiarono la fuga dei sovietici con un pogrom contro gli ebrei locali. Li portarono davanti a un muro e cominciarono a sparare alla testa: da sinistra a destra, a cominciare dalla prima fila. Simon stava nell’ultima. Erano quasi arrivati a lui, quando si fermarono improvvisamente. Un ausiliario ucraino, che aveva lavorato con lui, lo riconobbe; con la scusa di avervi riconosciuto una spia sovietica da portare al distretto di polizia, l’ucraino lo fece scappare. Ma non pote’ evitare la reclusione nel ghetto e piu’ tardi la deportazione per il campo di Janowska, dove con la moglie fu assegnato a lavori ferroviari per il Terzo Reich (la madre intanto dal ghetto veniva deportata e uccisa con i gas nel lager di Belzec). Nell’aprile 1943, cadde ancora vittima di una selectja, una condanna a morte gratuita in onore del compleanno di Hitler: sarebbe stato fucilato di li’ a qualche ora se due ufficiali nazisti – Adolf Kohlrautz e Heinrich Guenthert – con cui aveva lavorato alle ferrovie non fossero venuti in suo soccorso. Al Fuhrer serviva piu’ da vivo che da morto. Ma nulla e’ piu’ rivelativo dell’animo di Wiesenthal del seguente episodio, narrato dall’amico giornalista Peter Michael Lingen: ”Quando la figlia di Wiesenthal Pauline si sposo’ nel 1965, il ‘cacciatore di nazisti’ invito’ Heinrich Guenthert al di lei matrimonio. Per Wiesenthal l’esser stato salvato da due ufficiali nazisti fu un’esperienza che lascio’ il segno non meno della persecuzione da parte degli altri nazional-socialisti: ‘Voi siete la prova che era possibile sopravvivere al Terzo Reich con la mani pulite; siete la prova che cio’ che si chiama ‘colpa collettiva’ non esiste!”. In questo rifiuto della tesi della colpa collettiva, di recente rilanciata ‘juxta modo’ anche dallo storico americano Daniel Jonah Goldhagen (”Hitler’s Willing Executioners”, 1996, tradotto in italiano ”I volonterosi carnefici di Hitler”), si puo’ vedere uno dei criteri fondamentali del metodo wiesenthaliano: perseguire i crimini nazisti significa accertare le responsabilita’ personali dei criminali, rifiutando generalizzazioni dettate da astio o vendetta, e cercando testimonianze precise e accuse circostanziate e provate. E puo’ sembrare paradossale che proprio questo ”cacciatore di nazisti” abbia evitato una giustizia sommaria a piu’ di un criminale grazie alla sua rettitudine morale, per la quale rifiutava la logica del farsi giustiza da se’: ”Uccidere per vendetta non puo’ e non deve diventare il modo di farci giustizia. Noi siamo diversi dai nazisti proprio in quanto accettiamo le sentenze di un tribunale legittimo, anche se sono ingiuste o mostruose. Se tu -disse una volta a un amico austriaco- sei convinto che Franz Novak (un criminale che fu rilasciato dopo una breve e mite detenzione) e’ un assassino, allora non diventare assassino di Novak”. L’attivita’ anti-nazista di Wiesenthal per anni e’ stata una battaglia legale paziente e meticolosa (”da studioso talmudico” e’ stato detto) spesso contro una burocrazia riluttante e connivente, contro presunti difensori dell’onore tedesco-austriaco, contro dipartimenti statali ostili a far luce nei loro archivi. Solo dopo aver accumulato documenti probanti e testimonianze sicure, Wiesenthal procedeva a denuncie presso le autorita’ competenti: polizia e tribunali. Se queste erano sorde e ignoravano intenzionalmente il caso, Wiesenthal organizzava una conferenza stampa e denunciava il caso e l’indifferenza delle autorita’ alle ragioni della giustizia. La sua primaria preoccupazione infatti non sono mai stati i ”casi” o i files o le statistiche ma piuttosto le persone, ossia le vittime in quanto sopravvissuti e testimoni. Il piu’ delle volte si limita a registrare date, nomi, racconti orali. E’ infatti profondamente convinto della necessita’ della ”storia orale”, narrata a viva voce dai testimoni, accanto alla piu’ tradizionale ”storia scritta” elaborata dagli storici di professione. Da questo punto di vista il libro di Wiesenthal piu’ emblematico e’ quello dedicato al caso di Schulze, un criminale che non porto’ mai davanti alla giustizia umana per rispetto dei testimoni e per evitare che la punizione di Schulze potesse distruggere la vita di un innocente coinvolto suo malgrado nella tragedia della Shoa’. La storia e’ quella di ”Max e Helen” e del loro amore struggente e disperato, del quale lo stesso autore non e’ che muto testimone. Ascolta e riferisce, in un clima di eventi e sentimenti che rivelano una fine tempra letteraria. Il tema del male a un tempo metafisico e storico che si innesta sulle microstorie personali di due poveri ebrei e’ narrato da Simon Wiesenthal con la coscienza che la giustizia non e’ il solo valore che dobbiamo difendere, che spesso ci troviamo dinanzi a un ”conflitto tra valori” egualmente importanti, e che non esiste un criterio assoluto che risolva tali conflitti o che li prevenga, risparmiandoci l’angoscia esistenziale di una scelta. In un dialogo con Max, Simon Wiesenthal dice: ”Le ferite che ci sono state inferte non guariranno mai. Ma siamo sopravvissuti, e il fatto di essere ancora in vita ci impone alcuni obblighi… Io non mi porto soltanto dietro il ricordo di cio’ che ho personalmente subito, ma anche di cio’ che molti testimoni mi hanno confidato dei loro personali tormenti. E a volte accade che i confini tra me e loro scompaiano, e allora mi riesce difficile distinguere tra la mia esperienza e quella di un altro”. In quest’identificazione sta il metodo wiesenthaliano, per il quale la caccia ai criminali non e’ piu’ importante della scoperta di una testimonianza ma in qualche modo l’atto finale, e dovuto, del dovere di ascoltare le vittime.
Cosa fa VITA?
Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è grazie a chi decide di sostenerci.