Cultura

Addio a Marc Augé: «Siamo tutti stranieri a noi stessi»

È morto Marc Augé, antropologo e filosofo. Classe 1935, è celebre per l’intuizione sui “non luoghi”: se l’uomo vive di relazioni, gli spazi come stazioni, aeroporti, centri commerciali sono “non luoghi” in cui l’individuo è privato della sua identità. Ripubblichiamo un’intervista che gli fece Marco Dotti, nel gennaio 2015 [ndr].

di Marco Dotti

primo piano di Marc Augé, antropologo francese
Marc Augé, antropologo, foto di Giovanni Giovannetti, LaPresse

«Io sono un itinerante, un nomade senza percorso fisso che a volte prende, per caso, delle vie traverse che conducono a paesaggi inediti». Etnologo, già direttore dell’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, Marc Augé non esita a definire lo sradicamento e l’essere sempre altrove come i tratti costitutivi del suo oramai lungo tragitto di “cartografo della modernità”. Essere itinerante, prosegue Augé, «vuol dire non escludere il ritorno» e tutti quei percorsi circolari attraverso i quali «si ritorna al punto di partenza e si ritrovano gli altri, per confermare il legame e ricreare il luogo».  I veri luoghi, osserva ancora Augé, «sono dentro di noi» e la scrittura può forse aiutare a «fare luogo, a fare spazio» in un mondo troppo affollato di immagini.

In apertura del suo Straniero a me stesso (Bollati-Boringhieri, 2011), lei pone a sé e al lettore due domande. Partiamo quelle: la persona che ricorda, di cosa si ricorda? E ancora: la persona che scrive, perché e su cosa scrive?

La persona che ricorda, si ricorda di una realtà erosa e troncata, scolpita dal tempo. Forse proprio per questa ragione, scrive.  Per tagliare ciò che lega il presente e il futuro a un passato che rischierebbe unicamente di soffocarla. Siamo per tradizione portati a credere che il senso ci arrivi dal passato. La psicoanalisi ci ha indotti a frugare tra sogni, ricordi e rimorsi per scoprire la chiave di un enigma irrisolto che riguarda le nostre vite. Ma in fondo, si scrive per il profondo bisogno di gettare ponti e quindi di essere letti, fosse anche da una sola persona.

Si parla della fine del libro, come se questa fine fosse un mero dato tecnico o commerciale e non riguardasse una mutazione già irrimediabilmente avvenuta, forse, nel rapporto tra uomini e parola, nella relazione e nel dialogo…

La scrittura e la parola sono fatte proprio per stabilire una relazione. Questo è però un compito che impegna il futuro, comporta un rischio e apre un’avventura. Nessuno conosce realmente il destino delle parole. Un libro è una specie di bottiglia nella quale poniamo un messaggio, prima di abbandonarlo al mare. Poiché non credo alle fratture generazionali, credo che libri e parole di chi come me ha più di settant’anni possano interessare anche i giovani. La scrittura, infatti, è un ponte nello spazio e nel tempo. È l’atto simbolico per eccellenza. Ed è il mezzo migliore per scongiurare la solitudine.

Non credo alle fratture generazionali, credo che libri e parole di chi come me ha più di settant’anni possano interessare anche i giovani. La scrittura, infatti, è un ponte nello spazio e nel tempo. Ed è il mezzo migliore per scongiurare la solitudine.

— Marc Augé

Oltre all’apertura, scrivere coincide anche con un necessario ritorno su di sé. È un esercizio di riflessività e pratica del senso…

In effetti, quando scriviamo combiniamo due movimenti, li articoliamo. Un primo movimento è rivolto verso il futuro. Un secondo, verso il passato.

Poi, però, c’è il movimento verso il futuro…

Il movimento di ritorno acquista un senso soltanto nell’atto che lo proietta verso il domani. Scrivere significa strappare il passato al passato, proiettando nel futuro, ossia davanti a noi, la fonte del senso che tutti ci dicono essere dietro di noi. Come detto, abbiamo creduto a lungo che il passato dominasse sul presente e che la storia singolare o collettiva non fosse altro, con alcune eccezioni e contraddizioni, che lo sviluppo del passato. Per quanto riguarda la scrittura, questa visione, marxista o psicoanalitica, è riduttiva, perché difetta della scommessa sul futuro. Dovremmo optare invece per l’intuizione libera che sopravanza le decisioni prese e costituisce ciò che chiamiamo creazione o, se si preferisce, poesia.

Abbiamo bisogno di scrivere, dunque, non solo per scavare, ma soprattutto per costruire?

Sì, e proprio per questa ragione sono convinto che abbiamo bisogno di scrittura. E abbiamo bisogno di una scrittura che si prenda il proprio tempo, che sposi i movimenti di un tempo che può essere quello della descrizione e della riflessione. L’immagine, al contrario della scrittura, dice tutto e non dice nulla. Un’immagine non parla, se non la si fa parlare. Per questa ragione, scrivo. Scrivo, inoltre, per essere letto da qualcuno, per stabilire quella relazione che fa di me ciò che sono: io e un altro. D’altra parte, siamo “stranieri a noi stessi” nel senso che, come un etnologo non è mai in completa convergenza di opinioni e sentimenti con la cultura propria o di quelli che sta osservando, la distanza fa parte di noi. La distanza fa parte dell’essere etnologo, ma anche dell’essere scrittore. Distanza da sé, distanza dagli altri. Ogni individuo è plurale, le figure (e le pratiche) dell’etnologo e dello scrittore non fanno che ricordarcelo.

Ogni individuo è plurale, le figure (e le pratiche) dell’etnologo e dello scrittore non fanno che ricordarcelo

— Marc Augé

Eppure viviamo in una “civiltà” sempre più fondata sull’immagine…

Oggigiorno, si comunica molto. Abbiamo sms, internet, facebook, ma la scrittura riflessiva, una scrittura che si prenda il proprio tempo è qualcosa di ben diverso da questa comunicazione: è qualcosa che dà inizio a un autentico scambio. E poco importa se non c’è dialogo formale, tranne in poche occasioni. Ciò che conta è che il lettore si appropri del libro, lo faccia suo, impari, lo critichi, lo interpreti. Si faccia a sua volta autore.  Le immagini fanno inesorabilmente parte del nostro mondo e partecipano alla confusione tra luogo e non luogo. Arriviamo al paradosso di avere bisogno delle immagini per vedere la realtà, di servirci della  finzione per darle  un significato”. Il dominio delle immagini, delle tecnologie della comunicazione e la sovrabbondanza di “informazione” danno la sensazione di un presente perpetuo e fanno eco alle teorie della fine della storia. Teorie che suggeriscono che abbiamo trovato la formula ultima per la vita sociale. Oggi questa formula sembra rappresentata dal binomio “democrazia rappresentativa-economia di mercato”. Nello spazio circoscritto da questa “formula”, il neonazionalismo e il riemergere di vecchie ideologie razziste sono considerate deviazioni secondarie, avventure effimere. Di tanto in tanto, se necessario un tribunale emette le proprie condanne per i consueti “crimini contro l’umanità”. Ma non per questo siamo al sicuro. Non è infatti scontato che non si stiano riproducendo le illusioni dell’era vittoriana e di un evoluzionismo sociale che secondo i suoi cantori avrebbe dovuto condurci alla felicità. In effetti il divario tra i più ricchi dei ricchi e i più poveri dei poveri continua a crescere, così come quello tra i più colti e i più ignoranti. E questa tendenza sembra la premessa per nuove violenze fisiche e ideologiche.


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