Famiglia

Ad Abidjan il talk show si fa per strada

Tra la baracca del «Journal du Jeudi» e il grattacielo di «The Nation»

di Joshua Massarenti

Un uomo che legge i titoli
di un giornale. Un gruppo di ascoltatori. Poi un lungo dibattito. Nella capitale della Costa d’Avorio la “titologia” va di gran moda. E i giornali si adeguano. Un’esperta racconta i mille contrasti dell’informazione nel Continente nero, dove è la radio a farla ancora da padrona Chi scruta l’Africa dal binocolo del proprio intelletto vi dirà che tra Algeri e Johannesburg il mondo si divide in due parti: quelli che hanno i soldi e quelli che non li hanno. Tra i due estremi, c’è una classe media emergente con una dimensione pari a una foglia di insalata schiacciata fra quattro strati di hamburger. In altre parole, poco o nulla. Dal canto loro, gli esperti di media vi diranno che stampa, giornale, tv e internet sono lo specchio fedele delle condizioni culturali e socio-economiche in cui versa un Paese. In Africa bastano due esempi per riassumere il panorama massmediatico del continente più “sconnesso” del pianeta. Da un lato abbiamo Damien Glez, uno dei i migliori vignettisti africani (vedi l’intervista uscita sul numero scorso di Vita). Il suo è un giornale tra i più rispettati dell’Africa francofona. Eppure, varcando la soglia del Journal du Jeudi, mai potremmo immaginare di penetrare in uno dei tempi del giornalismo indipendente panafricano. Dagli uffici alla stamperia, tutto, o quasi, appare precario e desueto. Più a sud, in Kenya, troviamo il caso opposto: oggi il gruppo editoriale The Nation finanziato dall’Aga Khan Foundation domina Nairobi dall’alto di un palazzo scintillante da togliare il fiato. Tra giornali, televisione, radio e internet, il colosso keniota si è affermato in tutta l’Africa anglofona. Ora, tra il Journal du Jeudi e The Nation, che cosa c’è? Poco o nulla ci verrebbe da dire, ma forse qualcosa in più.
A quasi un ventennio dalla liberalizzazione dei media africani, Annie Lenoble-Bart, direttrice del Cemic – Centre d’études des médias de l’information et de la communication dell’università III di Bordeaux, ci offre sfumature sorprendenti dello stato di salute attuale dei media africani.
Vita: Che cosa rispecchia il fossato che separa il Journal du Jeudi e The Nation?
Annie Lenoble-Bart: In linea generale, la stampa anglofona rimane un passo avanti rispetto a quella africana. Questo vale sia sul piano finanziario che per quello qualitativo. Dopo l’effervescenza creatasi con la nascita dei primi giornali indipendenti tra la fine degli anni 80 e l’inizio degli anni 90, oggi il clima è meno euforico. Gli addetti ai lavori si sono accorti che dare continuità a un progetto editoriale in Africa era e rimane molto più difficile rispetto all’Europa o agli Stati Uniti. Di recente sono stata a Lumumbashi, nella Repubblica democratica del Congo: ebbene, non esiste una pubblicazione regolare. Si pubblica quando si può.
Vita: Perché tanta discontinuità?
Lenoble-Bart: È un misto tra ostacoli politici, giuridici, economici, sociali e culturali. Nella stampa francofona, ad esempio, le pressioni di una classe dirigente fanno sì che i pubblicitari non osano apparire su giornali giudicati ostili al potere. Sul lato opposto, il numero di africani in grado di leggere il francese è nettamente inferiore rispetto al numero di lettori anglofoni. La sproporzione è tale che in Paesi come la Costa d’Avorio sono apparse situazioni quanto meno sorprendenti. Pensiamo alla cosiddetta “Sorbona” di Abidjan e il fenomeno della “titologia” che vede gente riunirsi attorno a una persona che legge i titoli di un quotidiano. Da lì nascono dei dibattiti pubblici che si limitano a commentare i titoli senza entrare nel merito dell’articolo. Il fenomeno si è talmente diffuso che alcuni giornali ivoriani cercono di accrescere le vendite con titoli accattivanti e spesso al limite della deontologia professionale.
Vita: Questo significa anche che le scuole di formazione non sono all’altezza della situazione?
Lenoble-Bart: Non credo. Ci sono ottime scuole di giornalismo a Dakar e a Yaoundé, ma sopravvivono in condizioni finanziarie molto precarie. Lo stesso discorso vale per i giornali, e in misura minore per le radio e i canali televisivi. La precarietà dei giornalisti africani fa sì che alcuni di loro non esitano a moltiplicare le “marchette” e farsi pagare dal personaggio che intervistano.
Vita: Che differenze sussistono tra stampa, radio, televisione e Internet?
Lenoble-Bart: La radio rimane indubbiamente il mezzo di comunicazione più diffuso e popolare. Al contrario dei giornali, scritti in lingua europea, la stragrande maggioranza delle stazioni radiofoniche si rivolge al proprio pubblico nei dialetti locali. La radio era e continua ad essere un media di prossimità. Costa poco ed è più diffusa nelle zone rurali rispetto agli altri media. Nel caso delle radio rurali, il fatto di essere vicini alla “fonte” è un segno di affidabilità. Quindi ci sono le televisioni, in cui quasi tutti i giornalisti sognano di approdare, ma nonostante la nascita di progetti regionali interessanti il loro numero rimane molto limitato. E poi c’è la concorrenza del satellite, grazie al quale centinaia di migliaia di africani accedono alle trasmissioni europee o americane. Infine c’è Internet, ma in questo caso a difettare sono le connessioni, troppo lente.


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