Formazione
Accardo: «La Buona Scuola non è tutta buona»
L'insegnante scrittore che dirige il corso di scrittura creativa “Le scimmie” e da dodici anni insegna materie letterarie al liceo delle Scienze Umane/Artistico “Pascoli” di Bolzano critica la riforma
«Leggendo queste pagine avrei voluto esclamare: signori, ecco un insegnante! […] Vuole che gli ingranaggi funzionino. Cerca di riparare quelli rotti. Non tiene le mani in tasca. Entra in azione, notte e giorno, ora per ora. Coinvolge persone e istituzioni. Intreccia rapporti. Crea una vegetazione culturale. E voi pensate che sia incoraggiato? Che venga premiato? Che rappresenti un modello virtuoso di sperimentazione didattica? Il testo da lui scritto purtroppo dimostra il contrario».
Così lo scrittore Eraldo Affinati presenta l’insegnante-scrittore Giovanni Accardo, nella prefazione al suo Un’altra scuola (Ediesse, 2015). «Sai cosa vuol dire insegnare?», scrive lui nel libro, parlando con un ex alunno. «Vuol dire lasciare un segno. Sono riuscito a lasciare un segno, un segno profondo e duraturo? Un segno nella vostra mente più che nei vostri cuori?». Siciliano, classe 1962, Accardo dirige la scuola di scrittura creativa “Le scimmie” e da dodici anni insegna materie letterarie al liceo delle Scienze Umane/Artistico “Pascoli” di Bolzano.
La Buona Scuola qui non è ancora arrivata in pieno: l’autonomia della provincia consente uno slittamento di un anno. Ovviamente però ha seguito l’iter e il dibattito e ha osservato ciò che è accaduto nel primo anno di attuazione: ed è molto preoccupato.
Perché?
Innanzitutto per gli ambiti territoriali: senza graduatorie, un insegnante con trent’anni di servizio che perde titolarità si ritrova nel calderone e può essere mandato altrove. Per chi non è dentro la scuola è difficile da comprendere. La riforma in generale è un disastro, basti citare Walter Tocci, che è del Pd e ha fatto parte della commissione per la Buona Scuola ma alla fine ha votato contro la legge: «per coprire la mancanza di un progetto si è fatto ricorso alla comunicazione e a stereotipi da talk show». Io non capisco perché tutti i ministri debbano mettere mano alla scuola come se avessero la bacchetta magica e cambiare tutto: la scuola è complessa, le riforme non possono che essere graduali, invece da 20 anni siamo dentro una riforma continua, non esiste un altro ambito lavorativo in cui c’è tanta incertezza come nella scuola. Uno abolisce gli esami di riparazione, uno rimette gli esami… fra i docenti ormai c’è un’allergia alla parola riforma. Non siamo conservatori, è un meccanismo di autoconservazione: stiamo ore e ore in commissione e verbalizzare una marea di adeguamenti normativi che continuano a cambiare e sono solo una perdita di tempo. Una sera il custode del mio liceo, una persona comune, ci ha detto: “ma io vi vedo qui tutti i giorni a fare riunioni su riunioni, quando preparate le lezioni?”. Ha ragione. Ormai c’è un’ossessione normativa, sigle, gruppi, comitati, si passa la giornata a scuola a fare riunioni… questo ha una ricaduta negativa sulla qualità delle lezioni.
Nel libro lei scrive che «bisognerebbe sottrarre la scuola alla politica, abolendo il Ministero dell’Istruzione. Fanno le riforme, una dietro l’altra, ognuna tesa a vanificare la precedente, senza sapere cosa succede ogni giorno dentro le aule scolastiche. E allora: via! Aboliamoli: ministri e ministeri. Facciamo da soli, che faremo meglio». Davvero?
L’errore di base è che tutte queste “riforme epocali”, pronte un’ora dopo il giuramento del ministro di turno, si occupano solo del contenitore e non incidono mai su quello che accade in classe: contenuti, metodologia, formazione e selezione del personale… non se ne parla mai. Ma se vuoi migliorare la scuola è qui che devi agire. Come? Ci metto un minuto a indicare le caratteristiche che deve avere un buon insegnante: conoscenza della disciplina, capacità di trasmettere la disciplina, saper stare in classe e costruire relazione con gli studenti, sapere appassionare, avere voglia di fare questo lavoro tanto usurante…
E come si fa?
Intanto con una formazione adeguata, una laurea disciplinare e una scuola di specializzazione per chi vuole insegnare, che ti metta immediatamente nel lavoro vero. Una specializzazione che dia competenze pedagogiche, didattiche, psicologiche, non solo teoria ma almeno la metà delle ore di tirocinio in classe, così vedi cos’è questo lavoro e se te la senti. Se superi questa specializzazione, hai l’abilitazione: vai in classe e fai due anni di prova. Oggi la prova è inesistente perché l’insegnante in prova ha un tutor che dovrebbe seguirlo ma non ci sono praticamente mai visite in classe e il comitato di valutazione è fatto dai colleghi, non c’è la libertà emotiva per farlo. Dovrebbero esserci specialisti esterni, ispettori, che senza preannunciarsi entrano in classe e osservano. Dopo un anno si fa un bilancio, il giovane docente ha un altro anno per migliorare e poi si decide: dentro la scuola o fuori. Non serve un supereroe, serve una persona che abbia alle spalle un percorso specifico e specialistico, comprensivo di competenze didattiche.
Lei è favorevole alla valutazione degli insegnanti che ha debuttato quest’anno?
Favorevole alla valutazione, non a come è stata realizzata. La gran parte degli insegnanti non ha nulla in contrario a farsi valutare, ma bisogna capire chi valuta e con che obiettivi. I genitori no, perché nessun genitore è obiettivo, lasciamoli fuori. Gli studenti sì, a patto di fare le domande giuste e saperle leggere. La valutazione oggettiva a scuola non esiste, né quando noi valutiamo gli studenti né quando qualcuno valuta noi. Il nostro è un lavoro soggettivo, serve un nucleo di valutazione esterno alla scuola e soprattutto serve stabilire le finalità di questo processo. A me pare che la riforma l’abbia inserita pensando all’effetto mediatico, “cacciamo quelli che non sanno insegnare”, ma è un inganno perché nessuno può essere cacciato se ha vinto un concorso. La valutazione formativa esiste, certo, ma non è quella dei test Invalsi. Eppure nei rapporti di valutazione i risultati Invalsi sono centrali. Io ho una classe test con test Invalsi non particolarmente positivi ma che ha dato prova di grandi capacità in una marea di progetti: l’anno scorso abbiamo vinto il primo premio in un concorso su EXPO. Su 770 progetti inviati abbiamo vinto noi, con un progetto multimediale portato anche alla Biennale: non metterei la mano sul fuoco sul fatto che quella classe avesse risultati eccellenti nelle prove Invalsi.
Oltre alle competenze dei valutatori, cosa non le piace?
In generale mi pare che la Buona Scuola stravolge tanti aspetti senza arrivare e una vera idea di scuola, manca uno sguardo pedagogico. Mi pare ci sia un eccesso di competizione, non solo nel bonus insegnanti, mentre noi abbiamo bisogno di cooperazione. Cooperazione degli insegnanti fra loro, tra genitori e insegnanti, tra insegnanti e territori… e anche di insegnare ai ragazzi innanzitutto la cooperazione. La scuola non è un quiz di Mike Bongiorno né una battaglia con vincitori e vinti. Si dice diamo più poteri ai dirigenti, ma oggi ci sono presidi con cinque scuole, non riescono neanche ad avere un rapporto quotidiano con i loro insegnanti, ad andare in ogni scuola tutti i giorni… Sono questi gli investimenti veri, non il bonus. Se invece del bonus ci dessero classi con 20 studenti anziché 30 saremmo tutti più contenti, la qualità del lavoro cambia immediatamente.
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