Sostenibilità

Abitare

Le parole e le cose/ Un verbo che suscita sempre più disagio. Perché ci sentiamo sempre più estranei alle case in cui viviamo? Franco La Cecla ha un'idea e un colpevole

di Maurizio Regosa

Vita: Solo raramente si discute della relazione dell'uomo con il suo spazio. Città, metropolitane, spazi urbani sono accettati come fossero un destino immodificabile. Ma è davvero questo il senso dell'abitare?

Franco La Cecla: Anzitutto è un verbo, non un sostantivo. Indica, anche se spesso ce ne dimentichiamo, quel processo fondamentale per cui la gente fa propri i luoghi, si impossessa dei luoghi del mondo. Un processo che ovvviamente ha a che fare con qualcosa di culturalmente acquisito.

Vita:Un processo di cui siamo inconsapevoli?

La Cecla: La parte attiva dell'abitare è scomparsa in tutte le città europee. Viene richiesta dopo come forma di partecipazione, ma l?aspetto di significazione che la gente riesce a dare ai propri spazi è cancellato. Le professioni che si occupano dell?abitare, dagli architetti agli amministratori, hanno sottratto alla gente la capacità di modellare il proprio spazio di vita. Quindi dell'abitare è rimasto molto poco. Sino a un secolo fa in Europa gran parte degli spazi erano frutto di un'interazione che non aveva mediatori tipo architetti, ingegneri, geometri? Poi è venuta meno la città come risultato delle intenzioni di come la gente voleva abitare.

Vita: Cosa vuol dire «significare i propri spazi!?

La Cecla: Lo spazio di vita delle persone, non solo quello privato ma anche pubblico, ha molto a che fare con i risvolti simbolici, la cosmologia. In molti luoghi dell?Asia e dell?Africa la forma del villaggio è una specie di riassunto del mondo. Lévi-Strauss in mezzo ai Bororo in Amazzonia scopre un sistema di alleanze matrimoniali legato alla dimensione spaziale del villaggio. Cioè si possono sposare soltanto con quelli che vivono in una certa parte del villaggio. Una circolarità piena di rimandi simboli. Quando arrivano i missionari cercano di convertire i Bororo e non ci riescono fin quando non li costringono a mettere le capanne in file parallele. Da quel momento in poi i Bororo perdono la loro cultura.

Vita: Oggi lo spazio esistenziale è ridotto alla casa?

La Cecla: Sì, alla scelta dei mobili. Mentre invece è una funzione importante dell?essere nel mondo. Ha un aspetto significativo rispetto al rapporto con gli altri. Comunque non è del tutto cancellata: l'abitare è talmente forte che, anche in sistemi molto pianificati o organizzati dall?alto, riemerge. In Spagna, ad esempio, la gente usa le ramblas in modo diverso dagli italiani. Sono luoghi di vita, senza negozi: il pasear è molto più importante di guardare le vetrine. Una caratteristica rimasta a provocare lo spazio pubblico.

Vita: Nonostante architetti e sindaci, l'abitare in qualche modo resiste?

La Cecla: L'abitare è una facoltà umana incancellabile, ma può essere molto ridotta. Una delle tragedie dell?architettura contemporanea è proprio l?incapacità di creare simboli condivisi. Le grosse star dell?architettura fanno singoli monumenti che hanno significato per loro e per qualche altro collega ma che non approdano mai a un significato collettivo. Pensi al progetto di Daniel Liebeskind per Ground Zero, a New York: non ha toccato nessuno dei significati che un luogo così drammatico poteva cogliere.

Vita: L'architettura ha abdicato al suo ruolo?

La Cecla: Siamo alla fine di una storia professionale che ha fallito il suo compito, quello dell?elaborazione simbolica del significato collettivo della città. Fino all'Ottocento, inoltre, gli architetti interpretavano una certa maniera di vivere della gente e riuscivano a significare i cambiamenti. Dal dopoguerra in poi questa capacità è completamente sparita. L'architettura si è ridotta a singola opera, all?assoluta incapacità di fare città.

Vita: Come se lo spiega?

La Cecla: Con il crollo degli aspetti collettivi del significato delle città: la modernità ha prodotto frammentazione e perdita di un linguaggio. In secondo luogo, con il peso molto forte delle corporazioni, che si arrogano il diritto di fare lo spazio per gli altri e lo creano essendo sempre più legate a un orizzonte di interesse particolare. Poi me lo spiego con il crollo professionale dell?architetto.

Vita: E l'abitare come accogliere?

La Cecla: Le città hanno sempre avuto uno spazio previsto per gli stranieri. Erano luoghi per i passanti, i mercanti, gli zingari, gli stranieri, quelli che facevano attività circensi. Ivan Illic ha elaborato il concetto di commons, spazi destinati alle collettività, luoghi non normati fino in fondo, dove le minoranze potevano fermarsi.

Vita: Quindi la capacità di accogliere è venuta meno in relazione alla crisi dell'architettura?

La Cecla: C'è stata una crisi di importanza dello spazio. Mentre prima esso serviva a comporre i conflitti e a dare un?educazione cittadina alle persone, nella modernità del secondo dopoguerra lo spazio perde importanza: quello che si esprime nello spazio pubblico è come non fosse così importante. Prevalgono i flussi astratti: le relazioni professionali, i flussi telefonici, poi internet?

Vita: E il risultato di questo percorso?

La Cecla: Le nostre città sono talmente fragili che non riescono ad accettare uno spazio non definito e non controllato. Hanno vinto le politiche poliziesche. Che non tengono conto del fatto che se tu irreggimenti troppo le città, le uccidi. Del resto in molti Paesi, fra cui gi Stati Uniti, c'è un dibattito su come utilizzare la polizia in città. Tutti si rendono conto che quella repressiva non è la strada per dare ordine allo spazio urbano: le città non possono essere troppo normativizzate. Il fatto è che non sappiamo ancora inventarci un ordine pubblico capace di gestire una città senza ucciderne la creatività. L'evidenza dimostra che le città creative, che diventano anche leader dal punto di vista del turismo, sono quelle in cui c'è una buona dosa di improvvisazione: San Francisco, Amsterdam, Barcellona. È importante che le città abbiano una loro bohème, una loro avanguardia, una loro Trastevere che rimanga Trastevere.

Vita: Tutti capiscono che l?approccio poliziesco non va, ma poi vi si rifugiano.

La Cecla: C'è una povertà tremenda degli amministratori. A sinistra c'è la pianificazione sovietica dello spazio, a destra un liberalismo che comunque ha sempre bisogno del carabiniere per ridurre tutto a diritto del singolo. Il risultato è una cultura urbana tremendamente povera, anche negli amministratori migliori. Non sanno creare spazi pubblici né mantenerli. Né sanno individuare quali siano le parti creative all'interno di una città.

Vita: Quali sono?

La Cecla: I giovani ad esempio. Ma in gran parte delle città sono percepiti come un fastidio enorme, perché fanno delle cose che non sono normativizzate. Poi però se non ci sono i giovani le città non solo si spengono, ma non funzionano nemmeno economicamente. Barcellona ha 50 milioni di turisti all?anno, proprio perché è diventata il simbolo del luogo giovanile. Roma ne conta 20 milioni?

Vita: Manca una cultura per governare i processi?

La Cecla: Infatti. Lo si vede bene nell'altro grossissimo problema: gli immigrati che sono una grandissima risorsa non solo perché lavorano ma perché abitano gli spazi urbani molto più di noi. Vivono la città in un rapporto diciamo faccia a faccia; per loro è fondamentale mettere radici in un luogo e così facendo riabitano le città offrendosi come forza incredibile di innovazione. Ma se a questa presenza non si dà spazio, se si fa di tutto per cancellarla, allora possono nascere tensioni tremende, e si perdono molte occasioni. L?Europa sta diventando uno dei luoghi più interessanti del mondo dal punto di vista dell'arrivo degli immigrati. Che però devono essere visibili, devono mettersi in vetrina, vendere i loro prodotti, uscendo dal ghetto. Vivendo le città come grandi mercati delle culture diverse. I francesi non lo capiscono, hanno un modello di integrazione pura e dura. Da noi le città funzionano bene come meccanismi di assimilazione ma non c'è un pensiero, si va alla carlona, passando dall'indifferenza più assurda alla punizione dei lavavetri. Non abbiamo mai elaborato una cultura dell'integrazione.

Vita: Da parte dei cittadini ci sono reazioni spesso esagerate?

La Cecla: L'Italia è un Paese spaventato. A Piacenza, la gente dice che non può uscire per strada perché ci sono dieci neri. Manca appunto una politica della visibilità. Gli stranieri sono tollerabili se vengono messi in scena veramente, se la loro differenza viene messa in scena, le città sono il luogo della messa in scena della differenza. Ma per questo occorrerebbe un pensiero sull'integrazione, una organizzazione, quasi un ministero nazionale che si occupi di questi meccanismi di diversità.

Vita: Come possiamo reinventare il senso dell?abitare?

La Cecla: Nei prossimi anni le città cercheranno di pensare al proprio futuro inventandosi modi non pianificati a tavolino. Mi auguro che partecipino nuove competenze. Sto facendo il piano regolatore di Piacenza, lavoro con persone che non c'entrano con l?architettura, ma sono sensibili all?aspetto sociale: registi, geografi?

Vita: Quanto è diffusa questa pratica?

La Cecla: Purtroppo non molto. Ma il contesto ha un peso molto importante. È fondamentale passeggiare in un luogo, conoscerlo: c'è qualcosa delle città che si capisce solo standoci.

L'autore, Franco La Cecla, antropologo e architetto, ha insegnato Antropologia culturale alle università di Venezia, Verona e Palermo, ed è stato professore invitato all?École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, dove vive. Insegna Antropologia culturale presso la facoltà di Architettura dell'università Iuav di Venezia.

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