Non profit

Abbiamo messo l’anello al “dito” di Cattelan. Ma la nostra tana resta segreta

Maurizio Cipolla e Giovanni Maioli

di Redazione

Tutto inizia una notte, a un passo da piazza del Duomo, tra via Santa Maria Fulcorina e via della Posta. Tre uomini si muovono nell’ombra. Due sono ricoperti da una tuta aderente nera con un grosso numero 1 bianco che corre lungo tutto il corpo, davanti e dietro. Il terzo, con videocamera, riprende il tutto. Hanno corde, scale e passamontagna. Entrano silenziosamente in piazza Affari e si dirigono sotto la controversa opera L.O.V.E. di Maurizio Cattelan. Un’enorme mano senza dita. Solo il medio è superstite, eretto in un gesto inequivocabile verso il palazzo della Borsa. I due imbragano la statua, assicura una scala e in pochi minuti raggiungono la sommità del dito. A questo punto gli calzano un anello nero con scritte in bianco. Il tempo di appendere un cartello – «Maneggiare con cura. Questo anello è un’opera dal nome Logo 5/7 del progetto Contenitore Arti-stico in dono al Comune di Milano» -, poi si dileguano. È la notte di san Valentino. Il mattino seguente Milano scopre il singolare fidanzamento.
Passano alcuni giorni, e una mattina Riccardo Bonacina, direttore editoriale di “Vita”, sale su uno dei tanti taxi della sua giornata. Accanto alla leva del cambio nota Le oscillazioni del gusto. L’arte di oggi tra tecnocrazia e consumismo, di Gillo Dorfles. «Lei è solito affrontare queste letture?», domanda incuriosito al taxista. I due iniziano a parlare e così si scopre che il taxista altri non è che uno dei due “loschi figuri” protagonisti della sortita in piazza Affari. Bastano una manciata di ore, un ristretto giro di telefonate, e organizziamo un incontro.
Quella che scopro è una storia milanese. Una storia bianca e nera. Come Milano, che di giorno è quasi banale, ripetitiva e routinaria mentre la notte si trasforma, diventa straordinaria, elettrica e innovativa.
L’appuntamento è singolare: ci dobbiamo vedere per l’ora di pranzo all’incrocio tra via Sammartini e via Pergolesi, zona stazione Centrale, perché la loro sede «non ha un indirizzo raggiungibile». All’ora stabilita mi trovo di fronte un duo cinematograficamente perfetto: Maurizio Cipolla, più basso e “in carne”, con capelli lunghi e brizzolati, è la mente. Ed è lui il taxista. L’altro, il braccio, è invece alto e secco, con i capelli a spazzola: si chiama Giovanni Maioli. «Il vero artista è lui, io sono solo il ragazzo di bottega», chiarisce subito ridendo e indicando Maurizio. Ha con sé un piccolo cagnolino. «Facciamo in fretta che devo tornare in negozio», aggiunge, e scopro che fa il toelettatore. Due persone comuni, con due lavori diciamo “comuni”. Ma che di notte si trasformano in guastatori artistici.

Dalla “gay street” alla galleria
Ci incamminiamo lungo il primo tunnel alle spalle della Centrale. Di giorno qui incroci colletti bianchi, viaggiatori e ferrovieri, di notte percorri la “gay street”.
A metà del sottopasso, una porticina segreta. Entriamo, ed è come un viaggio nel tempo. Siamo catapultati in un bar anni 70. Non solo l’arredamento, il bancone, la polvere… anche gli avventori e il padrone sembrano arrivare da un’altra epoca: gli abiti marchiati Fs sporchi di grasso, i baffoni e il codino del barista che, servendo un ragazzo straniero, si lascia scappare il più classico degli “uè, biondo!”.
Sul retro, una porta dà sul Contenitore Arti-stico: una vasta stanza che una volta ospitava la biblioteca del Dopolavoro ferroviario. Dal clima familiare del bar si passa a quello incorporeo della galleria d’arte. «Non è solo il nostro laboratorio, è anche una nostra opera», spiega fiero Maurizio. «Abbiamo lavorato sodo, speso tempo e sudore per recuperarlo. Quando siamo entrati la prima volta era un disastro, in completo abbandono».
L’ambiente bicromatico condensa in un flash tutte le sensazioni vissute fin lì: un gioco di nero e bianco si alterna in sezioni geometriche, lungo le pareti corrono segmenti numerati dall’1 al 10, che ricordano i contenitori graduati che si utilizzano in cucina. «Questa è la tana degli Urluck», annuncia fiero Maurizio. «È il nostro nomignolo, un arcaismo milanese che significa “scemi del villaggio”».

Numeri e…
La stanza va però spiegata. «Le unità di misura sui muri sono soggettive. Ognuna deriva dalla misurazione di un nostro arto. In questo senso lo chiamiamo Contenitore Arti-stico», continua illustrando alcune foto di opere realizzate con lastre ai raggi X. «Ci hanno permesso di farle in un centro radiologico, previo pagamento. Così abbiamo misurato i nostri corpi». Qual è il messaggio? «È una provocazione legata alla manipolazione numerica. Prendiamo di mira e sbeffeggiamo la finanza creativa che, esattamente come abbiamo fatto noi, utilizza i numeri come meglio crede». La performance dell’anello in piazza Affari è dunque solo una piccola parte del loro impegno. «Ci ha dato fama in tutto il mondo. Pensa che ho saputo che a New York “urluck” è diventato “our luck”» ride Maurizio, «ma la cosa cui teniamo di più è questo spazio, che volevamo diventasse un ricovero per l’arte contemporanea». E invece, purtroppo, sta per essere chiuso.
«C’è stata una grossa perdita da una tubatura d’acqua che passa qui sopra. Il bar verrà recuperato perchè va salvata l’attività commerciale. Qui invece vogliono chiudere», racconta Giovanni. Però Maurizio non vuole arrendersi: «Stiamo cercando di salvarlo, abbiamo già avuto rassicurazioni da Massimiliano Finazzer Flory, l’assessore alla Cultura». Speriamo.
È il momento di tornare al presente e alla modalità diurna. Se non avessi foto e registrazioni audio, potrebbe sembrare un sogno. L’unica certezza di questo strano viaggio, è che bisogna fare di tutto per salvare la tana degli Urluck.

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